Cosenza. I pentiti: “sbirri e malandrini cumu u catu e ra corda”

Tutti i pentiti cosentini, o almeno la gran parte, nelle loro dichiarazioni, oltre alle malefatte commesse, raccontano di contatti tra esponenti dei clan e “personale” delle forze dell’ordine. Sai la novità, si potrebbe dire. Da che mondo è mondo, o meglio, da che mafia è mafia, i boss hanno sempre avuto bisogno di qualcuno che li informasse dei movimenti della Giustizia: prevenire un arresto, per un boss, è meglio che farsi arrestare. Stringere disonorevoli patti con infedeli servitori dello stato, è la prima cosa che si impara nel mestiere del boss, ne va della sopravvivenza del clan. Sapere, in anticipo, dove sta ficcando il naso qualche pm onesto, può “allungare la libertà”, e rendere la vita di un boss “libera e bella” come quella che conduceva il super latitante di Cosa Nostra, da trent’anni, Messina Denaro. Si sa: ai boss piace fare la bella vita. Del resto è un lusso che possono permettersi, e poi la libertà non ha prezzo. Un prezzo che solo chi ha a disposizione montagne di denaro sporco può pagare. E le “talpe” disposte ad accettarlo non mancano certo.

I boss, i picciotti, non sono i soli, però, a cui piace il lusso e la bella vita. La barca, il macchinone, le vacanze esotiche, l’attico in centro, la casa al mare, i ristoranti stellati, lo shopping, il circolo esclusivo, i figli all’università in America, sono “cose” che piacciono a tutti, ma che in pochi possono permettersi. La bella vita costa. Non basta lo stipendio pubblico a mantenere un tenore di vita così elevato. Non basta lo stipendio di un giudice, di un procuratore capo, di un pubblico ministero, di un cancelliere, di un questore, di un alto ufficiale, di un prefetto, di un impiegato, di un poliziotto, di un carabiniere, di un finanziere, di un vigile urbano, di un agente penitenziario, di un vigile del fuoco. Solo per restare nell’ambito della sicurezza e della giustizia, e come succede in tutte le “categorie” c’è chi tutte “queste cose” continua a sognarle, continuando a fare il proprio dovere onestamente, magari sperando di vincere al superenalotto, e chi invece, decide di cogliere l’occasione per realizzare i propri sogni. Occasione che arriva attraverso una corposa e ben farcita bustarella che più di qualcuno decide di intascare. La bustarella realizza tutti i tuoi sogni, è questo lo slogan che usano i boss per attirare le prede nella trappola. E devi essere davvero forte per resistere al soave canto della bustarella. Specie se il tuo vicino di casa parte ogni anno per le vacanze esotiche e tu no… non sempre si riesce a controllare la “debolezza della carne”.

Ad ognuno la sua… bustarella. Già, perché la farcitura della bustarella varia a seconda dell’importanza dell’informazione o del “servizio” offerto. Ci sono le bustarelle che pesano come piume per l’impiegato, e le bustarelle che pesano come macigni per i dirigenti altolocati. Una bustarella, i boss, non la negano a nessuno. Detto questo e ritornando ai pentiti c’è chi racconta di aver appresso di talpe all’interno delle forze dell’ordine nei “capannelli tra picciotti” e chi, invece, racconta di contatti diretti con esponenti “in divisa”. Da Foggetti a Lamanna, passando per Bruzzese e compagnia bella, senza scomodare il “Garden”, tutti i pentiti hanno raccontato di talpe nelle forze dell’ordine, ma nessuno ha mai fornito chiaramente le generalità dell’infedele corrotto.

Riempiono verbali con nomi e cognomi di mafiosi di ogni ordine e grado, anche di politici e pezzotti vari (che nessuno magistrato fino ad ora ha tenuto, giudiziariamente, in considerazione), ma quando devono far il nome dello sbirro corrotto, il non ricordo diventa la regola che, sui verbali dei pentiti, si trasforma in: l’ispettore, il commissario, il brigadiere, il maresciallo. Tranne qualche caso finito con un nulla di fatto, il nome dell’infedele non esce mai fuori. Eppure è accertato, riscontrato, verificato, certificato (almeno nelle investigazioni) che a Cosenza tra le forze di polizia si muove più di una talpa. Ma questo sembra non preoccupare, almeno per il momento, nessuno. Scoprire l’identità delle talpe nelle forze di polizia e negli uffici giudiziari, non è la priorità della Dda, almeno così sembra. A testimoniarlo la totale mancanza, da parte di chi di dovere, di qualsivoglia iniziativa (anche di ordine “disciplinare”) mirata ad arginare l’insano e devastante, per la giustizia, fenomeno delle “talpe”.

Il perché nessuno corre ai ripari, è materia complicata e di difficile interpretazione. Quello che possiamo dire con certezza, all’oggi, è che la fratellanza tra alcuni sbirri e diversi malandrini resta un legame solido, compatto è stabile nel tempo. A Cosenza i pentiti dicono: u catu e ra corda… una corda che nessuno riesce a tagliare.