La triste Storia di Tim

(di Carlo Di Foggia – Il Fatto Quotidiano) – È vero che la Storia è maestra, ma non ha scolari. Però quella di Telecom impressiona. Nel 1989, il fondo di private equity Kholberg Kravis Roberts & C. (Kkr) acquisì il gruppo RJR Nabisco per la mostruosa cifra di 31 miliardi di dollari. A oggi rimane una delle più grandi operazioni di Leverage buyout della storia. Il termine era noto da anni per indicare le operazioni di acquisto a debito scaricandolo poi sulle società acquistate, ma in Italia tutti finsero di non conoscerlo fino al disastro Telecom dieci anni dopo. La storia fu immortalata dal romanzo Barbari alle porte, la caduta di RJR Nabisco scritto dai giornalisti investigativi Bryan Burrough e John Helyar. L’Ad di Nabisco, F. Ross Johnson, per evitare di dover rispondere agli azionisti di una gestione fallimentare e farsi cacciare, decide di acquistare tutte le azioni Nabisco. Il fondatore e capo di Kkr, Henry Kravis, fiuta l’affare e parte una guerra stellare al rialzo delle azioni che si conclude con la vittoria dei “barbari” di Kkr. Johnson era noto per sprechi ed eccessi di lusso. L’arrivo dei barbari, che lo liquidarono a peso d’oro, fu quindi visto con favore. Due anni dopo, con l’azienda schiacciata dall’enorme debito contratto per la scalata, Kkr vendette le sue quote e la Nabisco nel ’99 finirà in uno spezzatino disastroso.

Il precedente illumina la triste storia di Tim, oggi vittima dell’ennesimo scontro di potere. I vertici sono stati sfiduciati dal primo azionista Vivendi e di fatto anche dal secondo, la Cassa Depositi e Prestiti. In soccorso dell’Ad Luigi Gubitosi è arrivato Kkr, che poco prima di un cda, fissato per venerdì, in cui Gubitosi rischia il posto, ha presentato una “manifestazione di interesse non vincolante e non indicativa” per comprarsi Tim con 11 miliardi e avviare uno “spezzatino” delle attività per estrarre un presunto valore oggi non riconosciuto dal mercato. Per quegli strani giri di potere dei disastri finanziari, a decidere la partita a Palazzo Chigi c’è una delle figure chiave delle privatizzazioni degli anni 90: Mario Draghi.

Il disastro di Tim nasce nel 1997. L’Italia deve entrare nell’euro, ha bisogno di soldi. A gestire la madre di tutte le privatizzazioni c’è Romano Prodi a Palazzo Chigi, Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, dove Draghi è direttore generale. All’epoca, Tim era un gioiello, una delle migliori aziende di Tlc al mondo con tecnologie all’avanguardia. Esisteva la lottizzazione dei partiti ed esistevano le ruberie, ma le aziende pubbliche tutelavano la ricerca, davano servizi e non profitti, che per i boiardi di Stato erano l’ultimo dei pensieri. Il 23 gennaio, i vertici della Telecom statale Biagio Agnes ed Ernesto Pascale vengono convocati al Tesoro da Draghi che gli chiede di dimettersi per favorire l’operazione. L’ordine arriva da Prodi, appoggiato dall’azionista di maggioranza del governo, Massimo D’Alema. “Mi dispiaceva che una persona che aveva servito per così tanti anni il Paese si trovasse davanti solo una porta dell’ascensore”, dirà Draghi di Agnes. La privatizzazione è un disastro. Lo Stato incassa 26 mila miliardi di lire (13 mld di euro), ma invece di conservare il controllo si affida alla soluzione penosa del “nocciolo duro”, un salottino finanziario (Generali, Comit, Credit, Mps, ecc.) che con il 6% delle azioni deve garantire la stabilità. Finisce che Fiat comanda con lo 0,6% delle azioni. “Vennero a profanare Telecom perché non ci capivano niente e mi misero a fianco delle persone assurde”, ha detto l’allora Ad di Tim, Vito Gamberale. Umberto Agnelli impone alla presidenza l’ex Fiat Gian Mario Rossingolo, cacciato dopo soli dieci mesi e una sfilza di flop.

Il disastro avviene nel 1999 con la scalata di Roberto Colaninno attraverso la Olivetti. D’Alema da Palazzo Chigi benedice la “coraggiosa razza padana”, anche se di coraggioso non c’è niente perché non ci mettono soldi. L’ad di Tim, Franco Bernabè, prova a impedire la scalata ma il leader diessino impone al Tesoro di non ostacolare l’operazione. In un burrascoso vertice a Chigi, Draghi pretende che glielo si metta per iscritto. Colaninno e compagnia spendono 30 miliardi, condannando a morte Olivetti mentre il debito di Tim schizza.

Solo due anni dopo la scalata, Colaninno lascia il campo a Marco Tronchetti Provera. Pirelli e compagnia decidono di scalare Telecom passando – tramite la holding Olimpia – per la Olivetti che controlla Tim. In questo modo, con 5,3 miliardi, si prendono un’azienda che quotava in Borsa quasi 70 miliardi. Attraverso il sistema di scatole cinesi, Tronchetti Provera ha guidato Telecom avendo personalmente meno dell’1% del capitale, mentre alla Pirelli l’avventura è costata cara. I debiti di Olivetti vengono fusi con la controllata Tim, e nel 2005 quelli “netti” ammontavano a 39 miliardi. È il leverage buyout, bellezza! Con un simile indebitamento, Tim si è avvitata. Nel 1999 fatturava 27 miliardi di euro, oggi 15; aveva 8 miliardi di debiti netti, oggi 17; è passata da 120 mila a 40 mila dipendenti; gli investimenti sono rimasti fermi. Nel 2007 Tronchetti vende alla cordata formata da Mediobanca, Generali e Intesa, che richiamano Bernabè, costretto ad ammettere che l’azienda “è stata spolpata”.

Da allora è stata una girandola di avvicendamenti finché non si è provato a regalare il colosso in crisi alla spagnola Telefonica, anche qui senza grandi successi. Poi è arrivata la Vivendi di Vincent Bollorè, che ha speso 4 miliardi per prendersi il 23,9% (oggi per oltre metà bruciati) e ingaggiato uno scontro col governo che ha schierato Cdp per aiutare il fondo Usa Elliott a mettere in minoranza i francesi. Sul Fatto, Giorgio Meletti ha calcolato che in poco più di 20 anni Tim ha speso in stipendi e buonuscite ai suoi manager 2-300 milioni. Una sfilza di nomi che fa quasi sorridere se non fosse che sono stati persi 80 mila posti di lavoro: Colaninno, Enrico Bondi, Tronchetti Provera, Riccardo Ruggiero, Carlo Buora, Franco Bernabè, Marco Patuano, Giuseppe Recchi, Amos Ghenis, Arnaud de Puyfontaine, Fulvio Conti e Gubitosi.

La liberalizzazione della telefonia ha ridotto le tariffe privando gli operatori delle risorse per gli investimenti. Se si aggiunge, come con Tim, un debito monstre, la frittata è fatta. È per questo che non era mai avvenuta prima di allora una scalata ostile a un gestore telefonico, peraltro privatizzato con tutta la rete.

Oggi il colosso perde ricavi e si teme una terza revisione dei profitti (profit waring) dopo le due lanciate da Gubitosi da marzo. Con Kkr l’ipotesi originale sarebbe uno “spezzatino” che parta separando la rete Tim dai servizi per darla (con debito ed esuberi annessi) allo Stato per il tramite di Cdp. È, in sostanza, il “piano Rovati” consegnato ai tempi del governo Prodi-2 alla Tim gestione Pirelli, che gridò all’esproprio. Quindici anni dopo, siamo ancora lì, con Vivendi disponibile a trattare, ma senza che nessuno riesca a spiegare perché ora si potrebbe fare.