22 luglio 1970: la strage di Gioia Tauro e i cinque anarchici

Luglio 1970-luglio 2020. Sono iniziate da qualche giorno le celebrazioni per il 50° anniversario della rivolta di Reggio Calabria per il capoluogo di regione. Un evento fondamentale per capire la storia di ieri e quella di oggi. Oggi, 22 luglio, rievochiamo la strage del Treno del Sole a Gioia Tauro, sulla quale nessuno ha mai voluto fare luce e che ha avuto – come succede spesso in questi casi – un tragico epilogo per chi aveva cercato di dire la verità e centinaia di depistaggi che emanano ancora oggi un insopportabile fetore di servizi segreti deviati. 

Una strage e cinque anarchici

da “Porto Franco” di Francesco Forgione

Il 22 luglio 1970 il Treno del Sole partito dalla Sicilia e diretto a Torino è strapieno. Accalcate nelle carrozze di seconda classe – tanto, poveracci com’erano, quelle di prima era inutile metterle – ci sono intere famiglie di emigrati. Sono i nuovi operai delle fabbriche del Nord che hanno finito il primo turno di ferie, quello di luglio, e dopo due giorni devono dare il cambio ai loro compagni che scenderanno a casa nel mese di agosto.

Alle 17,10 quando il treno sta per entrare nella stazione di Gioia Tauro, si sente un forte boato. Le quattro carrozze di coda deragliano. Nell’incidente muoiono sei persone, cinque sono donne, i feriti sono 72. Il questore Santillo, il generale dei carabinieri Sottiletti e il sostituto procuratore di Palmi Paolo Scopelliti, giunti subito sul posto, non hanno dubbi: si tratta di un incidente ferroviario.

Dall’inizio della rivolta era trascorsa solo una settimana e per quelli dello Stato arrivava un’altra bella grana. Meglio scaricargliela alle ferrovie che parlare di strage come avevano iniziato a fare i soliti giornali della sinistra. Su questo erano tutti d’accordo, polizia, carabinieri e magistrati. Soprattutto il governo, che già si trovava al centro delle polemiche per i depistaggi dei Servizi segreti sulla strage di Piazza Fontana che, solo sette mesi prima, a Milano aveva provocato 17 morti e 88 feriti.

Ora ci mancava solo la “strage di Gioia Tauro”, così la teoria della “strategia della tensione”, come la chiamavano i comunisti e quelli della sinistra, non si sarebbe più potuta smontare. Strage non doveva essere e strage non sarebbe stata. Con una rapidità investigativa rara, la Procura di Palmi chiude l’inchiesta e avvia il processo. L’incidente era stato provato e i responsabili erano quelli delle ferrovie, per la loro negligenza nella manutenzione dei binari, e i macchinisti che, in mezzo a quei ponti e viadotti, sfrecciavano a 100 chilometri all’ora.

Ma chi l’aveva fatta l’inchiesta che si era dimostrata più rigorosa e precisa di tutte le altre perizie che dimostravano esattamente il contrario? Nientemeno che il nucleo di polizia ferroviaria di Gioia Tauro, nemmeno quello di Reggio, visto che per soli sei morti non c’era bisogno di scomodare né la Squadra Mobile né la Digos, che in quei giorni avevano già la grana della rivolta da sbrogliare.

La verità giudiziaria, con una sentenza del 1974, pur mandando assolti tutti, era stata dichiarata. Ma nella Calabria e nell’Italia delle doppie verità, non era l’unica. A cercarne un’altra ci avevano pensato cinque giovani anarchici. Dopo il casino successo a Milano – con un loro compagno, Giuseppe Pinelli, che era caduto da una finestra della questura e tutti dicevano che “era stato suicidato”, e un altro, Pietro Valpreda, sbattutto in carcere innocente con l’accusa di aver messo la bomba di Piazza Fontana – i cinque si erano fatti prendere dalla mania delle controinchieste. L’avevano fatta anche per il treno di Gioia Tauro e l’avevano pure scritto in un dossier, ancora riservato, che non era stato un incidente ma una strage fatta dai fascisti e dai loro “amici”.

La notte tra il 26 e il 27 settembre del 1970, stretti nella Mini Morris di Gianni Aricò, i cinque anarchici sembravano sardine. Erano partiti da Vibo diretti a Roma. Il giorno dopo ci sarebbe stato un grande corteo contro il presidente americano Richard Nixon. E figurati se loro se lo potevano perdere. Nella Mini con Gianni ci sono sua moglie Annalise Borth, Angelo Casile, Franco Scordo e Gigi Lo Celso. Qualcuno però li aveva avvisati che era meglio che rimanessero in Calabria. Un anonimo poliziotto aveva telefonato a casa di Gigi e lo aveva detto alla madre: “E’ meglio che non fa partire suo figlio per la Capitale”.

Invece i ragazzi a Roma ci dovevano andare a tutti i costi e ci sarebbero pure arrivati, se alle 22,35 non li avessero fermati per sempre al km 58, vicino Frosinone. Un altro incidente. Il numero dei morti è solo uno in meno di quelli del treno di Gioia. Le indagini dicono tutto e il contrario di tutto. I rilievi sono fatti per dimostrare l’opposto della dinamica reale dell’urto tra la macchina e un autotreno. I giornali del giorno dopo, tutti fedeli alla stessa velina, parlano di alta velocità, droga, anarchici pronti alla guerriglia. Il bastone che uno dei ragazzi usava per aiutare la sua gamba “offesa” diventa un’arma pronta a colpire i poliziotti durante la guerriglia urbana del giorno dopo.

Angelo, Gianni e Franco erano gli autori della controinchiesta sugli attentati che avevano cadenzato i giorni della rivolta e avevano scoperto che la ‘ndrangheta agiva su commissione del “Comitato d’azione per Reggio capoluogo”, anzi, ne costituiva una sorta di braccio armato. Non da sola, naturalmente. Avevano pure telefonato a Roma, ai compagni, per annunciarglielo. E Giovanni Aricò, eccitato, prima di partire lo aveva detto alla madre: “Sul treno di Gioia abbiamo scoperto cose che faranno tremare l’Italia”. Forse avevano parlato troppo, visto che i circoli anarchici di quel tempo per metà erano frequentati da anarchici veri e per metà da “agenti provocatori”, iscritti a logge massoniche e spioni.

Dopo un po’ di tempo si scopre che l’autotreno col rimorchio sotto al quale si sarebbe incuneata la Mini Morris decapitando i cinque anarchici reggini è dei fratelli Aiello, due padroncini alle dipendenze del principe Junio Valerio Borghese. Che strana coincidenza. Il principe fascista è il capo di un gruppo eversivo che si chiama Fronte Nazionale e, assieme alla crema del terrorismo nero di quegli anni, da mesi bazzicava a Reggio. Grazie ai contatti con la massoneria e con gli uomini della ‘ndrina dei De Stefano, aveva pure ottenuto l’appoggio di una parte della ‘ndrangheta al suo progetto di colpo di Stato da realizzare proprio alla fine di quell’anno.

Naturalmente nessun magistrato, né di Roma né di Frosinone, si era preoccupato di sequestrare quell’autotreno e farci i rilievi dovuti, tanto era chiaro a tutti che la Mini Morris, piccola com’era, ci si era infilata sotto da sola.

Della controinchiesta e dei dossier che i ragazzi avevano in macchina nessuno ne doveva parlare. Ne parla invece Paolo Mieli, un giovane destinato a diventare una delle firme più importanti del giornalismo italiano, che allora scriveva per L’Espresso: “Due dei cinque anarchici, cioè Casile e Aricò, avevano il compito di indagare se il deragliamento di Gioia Tauro fosse stato provocato da un atto di sabotaggio e che parte vi avessero avuto i fascisti locali. Qualche giorno prima della sua morte, Aricò telefonò al suo avvocato a Roma, informandolo che l’inchiesta sul deragliamento era conclusa e che i risultati erano sconvolgenti, ed è probabile che quel viaggio fosse programmato proprio per discutere la conclusione dell’indagine e non come si era pensato in un primo tempo, per partecipare a una manifestazione contro Nixon“. La cosa però era finita lì.

Dopo 23 anni, invece, nel 1993, ci penserà Giacomo Lauro, ‘ndranghetista fattosi pentito, a raccontarci la storia per la quale cinque ventenni erano morti ammazzati: “Gliel’ho dato io l’esplosivo per la bomba al treno sulla tratta di Gioia Tauro… La bomba era stata messa da Vito Silverini e Vincenzo Caracciolo. Mi dissero che non era loro intenzione fare saltare il treno, ma fare saltare i binari e che per pura fatalità successe il disastro… ma credo che ci rimasero male perché quel treno era un treno passeggeri”.

Quello che dice Lauro, lo conferma anche Carmine Dominici, un dirigente reggino di Avanguardia Nazionale, un altro gruppo molto attivo nei giorni della rivolta. Anche lui, dopo alcuni anni si pentirà: “Posso confermare che il disastro di Gioia Tauro non si trattò di un errore dei ferrovieri, ma di un attentato riconducibile agli ambienti dei “Boia chi molla”. Nel 1979 io mi trovavo detenuto a Reggio Calabria nella cella numero 10, insieme con Giacomo Lauro, Silverini e altri due calabresi entrambi uccisi per vicende di malavita comune. Restammo insieme in carcere per undici mesi. Silverini a un certo punto ci disse che era stato lui a compiere l’attentato di Gioia… e ci disse che anche lui faceva riferimento al movimento dei “Boia chi molla” per conto dei quali aveva fatto l’attentato”.

A parte la cella, che cos’hanno in comune Carmine Dominici e Giacomo Lauro?

L’uomo della ‘ndrangheta ha una storia politica e personale lontana da quella dei caporioni della rivolta. E’ vissuto in una famiglia socialista e da giovane è stato anche iscritto alla Federazione Giovanile Comunista: “… Poi, ovviamente, quando uno fa il giuramento alla ‘ndrangheta, quel giuramento vale più di ogni altro. Diciamo che all’epoca fui costretto ad aderire a quel patto tra la destra eversiva e la mafia, perché nella mia posizione di malandrino non mi potevo permettere di dire di no”.

Certo, come dice Lauro, non tutta la ‘ndrangheta partecipò attivamente ai moti di Reggio: “La parte che io conosco è dei De Stefano… e allora si creò un Comitato di azione per Reggio capoluogo. I componenti erano Ciccio Franco, Renato Meduri, Paolo Romeo, il professore Calafiore, Benito Sembianza e Fefè Zerbi. Questo comitato era sostenuto finanziariamente dal commendatore Mauro, mi riferisco a quello del caffè e dal dottore Amedeo Matacena. che allora era un imprenditore rampante… Questi erano i finanziatori… invece il braccio armato a Reggio centro era composto da Renato Marino, Carmine Dominici, Silverini Vito che era con me, Caracciolo Vincenzo, Giovanni Moro… Questa era la cellula che metteva le bombe e faceva guerriglia di mia conoscenza…”.

Le storie dei diversi protagonisti citati da Lauro prenderanno strade diverse. I componenti del braccio armato finiranno tutti in galera o morti ammazzati nelle due guerre di mafia che insanguineranno le strade di Reggio negli anni a venire, oppure saranno colpiti da morti misteriose che porteranno nella tomba le loro scomode verità.

Paolo Romeo

I caporioni, invece, avranno tutti un buon futuro politico, anche se sporcato da ricorrenti vicende giudiziarie: Paolo Romeo, da fascista si troverà deputato del Psdi, il Partito socialdemocratico che in Calabria era l’equivalente di una loggia massonica e il suo leader Costantino Belluscio, più volte parlamentare e sottosegretario, era iscritto alla P2 di Licio Gelli. Anni dopo Romeo sarà l’unico politico calabrese a varcare la porta del carcere per scontare una condanna definitiva per associazione mafiosa (all’epoca del libro non erano ancora “nate” le inchieste Gotha e Mammasantissima che avrebbero riportato Romeo in carcere… mentre qualche tempo prima era andato a finire nuovamente in carcere uno dei “compagni” del Psdi di Romeo e Belluscio ovvero il cosentino Pino Tursi Prato, ndr).

Amedeo Matacena, il finanziatore della rivolta e proprietario dei traghetti Caronte che collegano Reggio a Messina, con la scesa in campo di Berlusconi nel 1994, farà eleggere suo figlio, Amedeo junior, deputato di Forza Italia, ma sarò travolto anche lui da un processo per associazione mafiosa (è tuttora latitante a Dubai, ndr).

Ciccio Franco verrà eletto a furor di popolo senatore del Msi e rimarrà al Senato fino al giorno della sua morte. Renato Meduri farà il consigliere regionale e dopo la scomparsa di Ciccio Franco ne prenderà il posto al Senato.

Ma quei legami, saldati nei giorni della rivolta sulle barricate dei moti di Reggio, non verranno mai meno e li ritroveremo in tutte le vicende che da allora arrivano ai giorni nostri…