Alluvione in Toscana. Mario Tozzi: “Liberiamo i fiumi dal cemento”

(MARIO TOZZI – lastampa.it) – L’alluvione in Toscana (e in Veneto) ci manda alcuni segnali molto diretti, forse gli ultimi, su chi amministra il territorio, sulle previsioni meteorologiche, sulla crisi climatica e sui costi. E ci suggerisce una soluzione, probabilmente l’unica. Parto da quest’ultima, perché sugli altri segnali sappiamo molto, mentre su come rimediare ci siamo sempre mossi tardi e male, arrivando al punto di peggiorare le cose.

È evidente che la prevenzione è la soluzione, non solo perché un euro speso in prevenzione ne fa risparmiare nove in emergenza, ma soprattutto perché l’attuale crisi climatica non lascia alcuna alternativa: o ti dai da fare prima (vorrei dire subito) con intelligenza o subisci vittime e danni. Il problema sta tutto nell’intelligenza, oltre che nei tempi, e di questa ce ne abbiamo messa poca, assoggettati come siamo al pensiero economico, non ambientale, dominante che il dissesto idrogeologico sia una questione di opere: magari fosse così, basterebbe investire denari e impiegare forza lavoro.

Gli ultimi eventi ci dicono chiaramente che le opere servono in alcuni casi cittadini e in particolari realtà, come il Bisagno a Genova, il Seveso a Milano o l’Arno a Firenze e poche altre. In tutti gli altri casi non solo non servono, ma sono dannose e accrescono il rischio, non lo diminuiscono. In tutti gli altri casi dobbiamo agire esattamente al contrario: sottrarre opere e cemento e ridare spazio alla natura e ai fiumi. Più un fiume è libero di esondare a monte delle città, meno danni provoca. Se, però, occupiamo ogni metro quadrato di territorio nelle piane alluvionali (indovina perché si chiamano così…), l’acqua arriverà sempre nelle case, testimoniando che esse si trovano nel posto sbagliato.

E qui c’entrano gli amministratori sul territorio. Forse è ora di smetterla con la litania dei sindaci lasciati soli in balìa delle catastrofi naturali, perché le catastrofi non esistono, esistono gli eventi naturali i cui effetti diventano catastrofici solo ed esclusivamente per colpa nostra, che abbiamo costruito all’inverosimile e consumato territorio come se non ci fosse un domani. E chi ha consentito di costruire dovunque, non ha bloccato i soliti abusi e non abbatte le costruzioni illegittime?

Chi non ha saputo dire di no al capannone nel greto del fiume, alla casetta alle pendici della collina, all’infrastruttura dispendiosa ma inutile? La risposta la conosciamo, però ancora si richiede lo stato d’emergenza quando si sarebbe dovuti intervenire in tempo di pace, preservando le aree di pertinenza fluviale contro ogni forma di occupazione. Ma li avete sentiti voi questi dinieghi alla bulimia costruttiva degli italiani? Io non li sento da decenni, in un Paese di montagna che si illude di vivere in pianura. E hai voglia a ripetere che le precipitazioni sono cambiate, che in un giorno può cadere tutta la pioggia di un anno e che ciò può avvenire senza tanto preavviso: sembra che nessuno ascolti.

Non ci si può più affidare al fatto che in un dato luogo il periodo di ritorno di alluvioni disastrose sia secolare, si deve tirare una linea e affermare chiaramente che da oggi la nuova regola è che non si tratterà più di aspettare decenni, ma anni o addirittura meno. E che prevedere con precisione questi fenomeni nella loro piena entità è, al momento, complicato, ragione per cui siamo anche sguarniti dell’arma della previsione. Per una ragione precisa: non siamo più al tempo della grande piena del Po degli anni ’50 o ’90 del XX secolo, quando aspettavi con trepidazione la piena a Pontelagoscuro. Qui si tratta, invece, di aste fluviali corte, di torrenti sconosciuti fino al giorno prima, di territori che non riescono più ad assorbire acqua in profondità, come dovrebbero, non solo per via del cemento e dell’asfalto con cui li abbiamo ricoperti, ma anche per le prolungate siccità che li rendono impermeabili. Fenomeni in parte nuovi, ma che devono entrare da subito nei nostri orizzonti di rischio. E spingerci alla prevenzione vera, quella per cui dalle zone pericolose si fa un passo deciso indietro. Quella per cui si riqualificano i fiumi come si fa in tutta Europa: restituendo loro natura e liberandoli dal cemento, in modo che facciano meno danni e siano recuperati alla comunità.

Questa nuova visione è difficile da accettare, perché significa non trattare più il fiume come un canale artificiale, abbattere gli argini invece di innalzarli, eliminare briglie e ostacoli, ripristinare la vegetazione riparea e assolutamente non dragare i corsi d’acqua, cosa che peggiora i fenomeni alluvionali e priva dei sedimenti le pianure e le spiagge. Più natura significa più sicurezza, come suggeriscono ormai ingegneri, naturalisti e idrogeologi moderni e coscienziosi. E significa spendere meno e bene, evitando il prezzo salatissimo dell’inazione: non fronteggiare la crisi ambientale ha un costo che sembra essere a carico di nessuno e che invece insiste sulle spalle della comunità intera. Ma in un Paese in cui ancora c’è chi si attarda a negare il ruolo dei sapiens nel collasso climatico, contro il parere dell’intera comunità scientifica, e preferisce prendersela ipocritamente con Ultima Generazione, scambiando l’effetto con la causa, appare difficile che si riesca ad uscire dal fango che inevitabilmente ci sommerge e continuerà a farlo.