Assange, ecco perché i colleghi lo hanno scaricato dopo averlo sostenuto e utilizzato

(DI SABRINA PROVENZANI – ilfattoquotidiano.it) – Nei giorni scorsi ho seguito l’udienza con cui la difesa di Assange ha tentato di ottenere la possibilità di fare appello contro la richiesta Usa di estradizione, altrimenti imminente e già approvata da un giudice, oltre che firmata dall’ex ministro degli Interni britannico Priti Patel nel giugno 2022.

Come ho già scritto, è un appello in extremis: se respinto, a Wikileaks non resta che un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo che potrebbe, potenzialmente, bloccare la procedura.

Nel frattempo Assange langue in isolamento nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, e questo è un primo abuso, visto che ha scontato la sua pena a 22 mesi per violazione dei termini della cauzione. Per quanto ne sappiamo, le sue condizioni di salute fisica e mentale si sono molto deteriorate: erano compromesse già negli ultimi anni di detenzione coatta nell’Ambasciata ecuadoregna, e dopo quasi 5 anni di isolamento sono, secondo il suo avvocato Jennifer Robinson che ho intervistato, “terribili”.

Ho seguito il suo caso dalla pubblicazione dei primi file classificati, perché allora per una giovane giornalista l’accesso a una massa così ampia di documenti riservati era la rivoluzione che aspettavamo tutti. O meglio che aspettavano tutti i giornalisti interessati alla verità che, ahimè, non sono tutti. Ai tempi a quei file attinsero le principali testate occidentali, dal New York Times al Guardian. Mi sorprende dover reiterare l’essenza del lavoro giornalistico, e non ho l’autorevolezza per farlo: ma evidentemente ribadirlo è necessario. Il lavoro di un giornalista che ottiene una notizia è quello di verificarne allo sfinimento la veridicità, di proteggere le fonti che si sono esposte, e di redigere dettagli che possano mettere in pericolo soggetti vulnerabili. A volte, si fanno dure valutazioni in cui prevale l’interesse pubblico su quello dei singoli. Fatto questo con il massimo scrupolo possibile, il suo dovere è pubblicarla. Ad Assange, anche da illustri giornalisti italiani, viene imputato il fatto di aver messo in pericolo quelle fonti. Due elementi, e chiedo scusa per l’estrema sintesi: il primo, non sono emerse prove che la pubblicazione della cache procurata dalla whistlebowler Chelsea Manning abbia fatto delle vittime. Secondo, a condividere la password per decodificare nomi e dati sensibili è stato David Leigh, decano del Guardian, che non è mai stato incriminato.

Ora, faccio notare che, per sostenere quest’accusa, i governi Usa e Uk dovrebbero rispondere dei collaboratori, informatori, funzionari afghani e iracheni che hanno lasciato indietro quando hanno abbandonato quei Paesi dopo aver promesso assistenza imperitura alla popolazione, e invece oggi, questo è il caso britannico, rifiutano asilo politico e assistenza perfino a membri delle forze speciali afgane un tempo impegnate al loro fianco.

Quanto all’accusa successiva, legata alla diffusione, nel 2016, di mail compromettenti per l’ex segretario di Stato Hillary Clinton, accusa a cui sento dare credito sempre nei suddetti circoli italiani, vi rimando al lavoro di Stefania Maurizi, che sta perdendo la voce a forza di ricordare che l’inchiesta dell’Fbi sulle interferenze russe in quelle elezioni presidenziali non ha trovato prove che incriminassero Wikileaks. Ma quello che trovo interessante interroga di nuovo i fondamenti del giornalismo, e credo sia una delle ragioni per cui Assange è un morto che cammina. Se i conservatori di tutto il mondo non gli perdonano di aver rivelato i crimini di guerra in Iraq e Afghanistan (che poi sono una riedizione più ampia del lavoro per cui Seymour Hersh ancora vive di rendita per aver scoperchiato gli orrori commessi dagli Usa in Vietnam), i liberali non gli perdonano di aver tagliato le gambe a Hillary Clinton consegnando la Presidenza a Trump, sulla base di materiale ottenuto da hackers russi.

Siamo contenti che Trump sia diventato presidente? Io no, temo moltissimo un suo nuovo mandato e se cittadina Usa avrei votato Clinton a occhi chiusi. A OCCHI CHIUSI, appunto, cioè senza conoscere la verità sul suo operato. Ma il lavoro dei giornalisti non è condizionare la politica, a meno che non si faccia politica con altri mezzi. È pubblicare notizie che rivelino abusi di potere, di qualsiasi parte, perché la gente scelga per chi votare A OCCHI APERTI.

Assange è un uomo amabile? Probabilmente no, ma questo non solo non lo sa nessuno che non sia nella sua cerchia: principalmente, la gradevolezza della sua personalità non conta niente nella sua vicenda giudiziaria, che è su tre piani ora intrecciati: giudiziario, dei diritti umani e di difesa della libertà di informazione.

Se siamo sinceri democratici, ci dovrebbero premere tutti. Se siamo democratici solo per difendere uno status quo di privilegio, in effetti possiamo fare finta di niente, oppure scrivere editoriali male informati chiedendo la testa di Assange e sentendoci nel giusto.

In tutto questo, mi sono chiesta perché i media che tanto lo hanno usato lo abbiano poi abbandonato, sia per un sincero desiderio di capire, senza giudicare le scelte dei colleghi, che per contestualizzare la pericolosissima sfiducia nella stampa mainstream che continuo a registrare.

E ho sentito colleghi inglesi che considero onesti. Alcuni si sono ritratti, credo in buona fede, quando sono emerse le accuse di stupro. Anche su quello c’è molta disinformazione, anche se non è questa la sede per trattarla. Ma ricordo che Assange non rischia l’estradizione per quelle accuse, peraltro già archiviate per l’impossibilità di procedere. Altri hanno ritenuti che non abbia avuto gli scrupoli dovuti nel proteggere potenziali vittime quando ha pubblicato, senza filtri, la seconda cache di documenti, quella dalla quale le principali testate che avevano pubblicato la prima si sono distanziati. Legittimo, ma superato dall’ipocrisia dimostrata da Usa e Uk nell’abbandonare, nel caso afgano letteralmente all’aeroporto di Kabul durante una fuga vergognosa, i collaboratori in Paesi diventati scomodi.

La terza ragione, quella che credo gli abbia inimicato la stampa liberal, è appunto il sospetto di aver fatto il gioco di Putin nel portare Trump alla Casa Bianca. Obiezione: ho collaborato a Vatileaks, la meritoria inchiesta di Gianluigi Nuzzi che nel 2011 ha terremotato la Santa Sede, portando alla fine alle dimissioni di Papa Benedetto e alla incriminazione del Corvo, la fonte di quelle rivelazioni. Avremmo dovuto tacere per proteggere la Chiesa o la fonte in questione?

L’inchiesta sul Watergate portò alle dimissioni di Nixon, e la politica americana prese una direzione certamente non prevista dagli elettori che a Nixon avevano dato fiducia. È stata colpa di Woodward e Bernstein?

In ogni caso, ho cercato una fonte che analizzasse la recente copertura del caso Assange da parte della stampa britannica e ho trovato questo articolo, su una pubblicazione radicale come Declassified. E aggiungo un’appendice: di recente, il Dipartimento di Giustizia Usa ha fatto pressione su alcuni giornalisti investigativi britannici, quelli in passato critici verso Assange, perché testimoniassero a suo sfavore. Si sono tutti rifiutati. Leggete questa testimonianza dell’ex collaboratore di Wikileaks James Ball su Rolling Stone.

La difesa della libertà di stampa è un concetto puntellato da schiene dritte individuali.

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