Caccia al nemico interno. L’isteria “da guerra” in tivù

(DI ROBERTO ESCOBAR – Il Fatto Quotidiano) – “Io difendo i valori della libertà e democrazia… Se per farlo devo soccombere pace. Che modo migliore di morire che per la libertà degli esseri umani”. Non è un combattente ucraino che dice queste cose, tra una bomba russa e l’altra. L’eroe disposto a soccombere è un combattente di Facebook, difficoltà grammaticali comprese. In uno slancio d’amore per la democrazia e per la libertà, invece di usare un verbo prosaico (e impegnativo) come morire, si affida a uno ben più alato. In una guerra i morti sono decine o centinaia di migliaia, e dimenticati. I “soccombuti” sono pochi, ed eletti.

Ma come può soccombere, il nostro eroe, se il Paese non è in guerra? La domanda è ottimistica. Il Paese è in guerra, per quanto ancora senza vittime autoctone. Se così non fosse, non saremmo da settimane in piena mobilitazione, nome che si dà all’insieme di espedienti con cui si suscita e si esaspera l’impulso bellico nell’opinione pubblica. A questo scopo occorre prima di tutto annebbiare lo spirito critico. Ogni immagine mentale che possa riattivarlo deve essere allontanata, a partire da quelle della propria morte, trasfigurata in sacrificio. Il nemico viene diffamato. Gli si rinfacciano anche i crimini passati, di cui – chissà perché – a suo tempo non ci si era accorti. Lo si dipinge come debole, diviso. Le voci dissonanti sono messe a tacere, accusate di intesa con il nemico. Il risultato di questo gran lavorio sull’opinione pubblica è una epidemia mentale, una isteria collettiva.

Perché ci si arrivi, all’epidemia e all’isteria, non bastano le foto delle distruzioni causate dal nemico, le testimonianze di chi sia fuggito dalla violenza e chieda aiuto. Neppure bastano prime pagine di giornali zeppe di violenze e atrocità. Anzi, queste immagini e queste testimonianze potrebbero indurre nell’opinione pubblica un rifiuto di altre violenze e atrocità, una richiesta di trattativa, di pace. Alla mobilitazione è necessario qualcosa di più sicuro, che non ammetta ambiguità, distinzioni, dubbi.

Questo qualcosa ha un nome antico: traditore, nemico interno. Non è chiaro e netto come quello esterno, non è subito riconoscibile. Si insinua tra noi. Finge di essere, anche lui, contro chi ci minaccia da fuori. È nascosto e sleale come un veleno, diffusivo e mortale come un virus. Ha tutto quello che serve per scaricargli addosso paura e odio.

Il problema è trovarlo, il nemico interno. Per fortuna – si fa per dire – c’è chi si presta. Il primo passo è puntare il dito contro chi non abbia ceduto all’epidemia mentale e all’isteria collettiva, e non se ne stia zitto. Non importa quello che dice. Importa che lo dica. Attorno a lui monta una canea di insulti, che subito si riversano su chi tenti di fermarla. Decisivi in questa pubblica lapidazione sono alcuni specialisti in liste di proscrizione. Sapendo di giocare dalla parte dei più, e dei più forti, fanno elenchi di uomini-veleno. In genere sono piccola gente, certo più piccola dei loro proscritti, patetici come un bambino che volesse pisciare in testa a un gigante, ma raggiungono l’effetto. Le loro accuse pubbliche mettono in moto una massa sempre più compatta di indignati, che lo inseguono ovunque e comunque parli, come i linciatori fanno con la loro vittima.

C’è entusiasmo in questo linciaggio, c’è passione. Non si cercano altri riferimenti, altre idee, altre opinioni. Ci si fissa sulle sue, anzi contro le sue, come per un innamoramento negativo, paradossale e crudele. Ogni sasso virtuale lanciato contro il traditore conferma i linciatori nella loro convinzione. Ne hanno bisogno, altrimenti rischierebbero di vedere le violenze e le atrocità, le soffrirebbero nell’immediatezza di chi le soffre, e (forse) chiederebbero trattative, pace.

E siamo così di nuovo al nostro eroe di Facebook. A lui non possiamo negare il diritto di soccombere, se ci tiene. L’importante è che non tocchi a noi, di soccombere per la sua imbecillità. E men che meno di morire, nel più prosaico e irrimediabile dei modi.