Calabria silente? Dolente? Complice (di Matteo Cosenza)

(foto corriere della sila)

CALABRIA SILENTE? DOLENTE? COMPLICE

di Matteo Cosenza

Un ennesimo blitz contro un clan reggino e l’arresto di notissimi politici e imprenditori: si resta impressionati ma non sorpresi. In realtà la Calabria non fa neanche più notizia per la ‘ndrangheta, il suo maggiore prodotto di esportazione, per le inchieste giudiziarie che la vedono protagonista in Italia, in Europa e nel mondo, tanta è l’assuefazione alla ripetitività di uno schema che neanche una fotocopiatrice farebbe meglio. La lamentazione, che sa tanto di meridione, non oltrepassa il Pollino. Tutta dentro un corpo avvitato su sé stesso, essa è diventata un escamotage per evitare di guardarsi allo specchio, preferendo mettere la spazzatura più che la polvere sotto lo zerbino e tentando di illudere, forse anche illudendosi, che l’avvicendamento quasi automatico degli amministratori, una staffetta trasversale tra parti contrapposte, sia sinonimo di cambiamento mentre lo stato delle cose rimane più o meno immutabile.

Chi non è silente, come il più autorevole di tutti, Vito Teti, viene isolato da molti intellettuali (e chissà che talvolta non sia lui a voler giustamente appartarsi). Chi non sta al gioco, come il giovane Claudio Cordova con il suo “Dispaccio”, rischia molto più dell’isolamento nella palude dello Stretto. Chi, follemente irriducibile come Gabriele Carchidi – non mi fanno velo i momenti di tensione avuti con lui – con la sua “Iacchite”, che per tanti a Cosenza è diventato un incubo, sembra ormai votato al martirio, di cui mi risulta sia anche consapevole. Chi, come l’imprenditore più noto, Pippo Callipo, ha tentato invano – e non demorde – di portare un po’ d’aria fresca nella politica. Chi, come Michele Albanese, per fare il giornalista dalle parti di Gioia Tauro è costretto a vivere da anni sotto scorta. L’elenco, non lunghissimo, potrebbe continuare, ma non cambierebbe il risultato: poche macchie di colore sono un dettaglio e non il quadro. In una terra, non me ne voglia la mia Campania, di una bellezza senza pari e che meriterebbe ben altro.

Devo ammettere di essere rimasto piacevolmente sorpreso leggendo il post di ieri del giornalista Matteo Cosenza a poche ore dall’ennesimo blitz contro ‘ndrangheta e corruzione in Calabria. Cosenza è un professionista che non ha bisogno di presentazioni e che ha diretto a lungo Il Quotidiano della Calabria dopo aver fatto la storia del giornalismo campano a Paese Sera e a Il Mattino. Non nego che mi sarebbe piaciuto molto far parte della sua squadra ma quando è arrivato in Calabria, al Quotidiano (dove ho lavorato per dieci anni) era appena andata in scena una disastrosa scissione e qualche collega che era rimasto nella sede di Castrolibero ha remato contro di me allontanando questa possibilità. Glisso anch’io sui momenti di tensione “giornalistica” – definiamoli così – che abbiamo vissuto anni fa e che non possono intaccare stima e giudizi e poiché sono un po’ “folle” mi piace pensare che per molti miei colleghi il post di Matteo Cosenza sia stato una sorta di schiaffo in pieno volto, anche se non avranno mai il coraggio di ammetterlo, codardi e vigliacchi quali sono. 

Quanto alla mia missione di “martire”, non posso certo dire di non esserne consapevole, dall’alto dei miei 168 (circa…) procedimenti penali ma fino a quando potrò ancora respirare, sarò in trincea per combattere la battaglia di migliaia e migliaia di calabresi che non si rassegnano ad abbassare la testa davanti alla corruzione dilagante, soprattutto a quella della magistratura, che finalmente è diventata – quella almeno sì – un caso nazionale. La speranza è che presto i gattopardi se ne andranno in pensione e che anche io possa trovare un giudice a… Cosenza. 

Per chiudere, ringrazio Matteo Cosenza e mi auguro di incontrarlo presto, magari insieme ad Ennio Simeone, che è stato il mio unico vero Maestro in questa professione sempre più disgraziata e mi piace citare il quarto canto dell’Inferno della “Divina Commedia”, sperando di non essere “blasfemo”.

Venerdì santo, 8 aprile. È sera. Un tuono fortissimo ridesta il pellegrino, che cerca di orientarsi nel nuovo luogo in cui si trova. È buio fondo. Virgilio stesso è pallido, perché sta per rientrare nel Limbo (primo cerchio), in cui egli stesso è posto. Vi sono le anime di coloro i quali sono vissuti prima di Cristo e quelli morti senza battesimo. Ma la terra non trema né si odono lamenti di dolore. 
A un certo punto, Dante vede un fuoco che vince un emisfero di tenebre, intuendo che lì dimorano persone degne di onore. Infatti, una voce esclama: “Onorate l’altissimo poeta; / l’ombra sua torna, ch’era dipartita” (v. 80-81). Quattro ombre si avvicinano: Omero, Orazio, Ovidio, Lucano. Virgilio presenta loro Dante, che entra, per un attimo solo, nella schiera: “sì ch’io fui sesto tra cotanto senno”… 

Gabriele Carchidi