“Cose Nostre”, lo show di Rai1: Calabria infame, Calabria vile (di Gioacchino Criaco)

Gioacchino Criaco nasce ad Africo, un piccolo centro della costa ionica calabrese.

Figlio di pastori, in giovane età inizia a meditare su una nuova trattazione letteraria dell’Aspromonte e luoghi limitrofi, data la scarsa divulgazione degli stessi.

Dopo la morte di Corrado Alvaro infatti, c’è stato bisogno di aspettare vent’anni per veder nuovamente i riflettori puntati sull’Aspromonte, e stavolta non per un’opera letteraria bensì a causa del fenomeno sequestri, che a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 dello scorso secolo ha ridotto l’immagine della montagna calabrese a una vera e propria foresta intricata e maledetta.

Si diploma presso il liceo scientifico Zaleuco di Locri, e si laurea in Giurisprudenza a Bologna. Esclude l’attività forense per avvicinarsi al mondo della letteratura calabrese, in quel momento assai sparuto.

Dopo anni di sperimentazione, nel 2008 pubblica Anime Nere, il suo primo romanzo, di grande impatto socio-culturale. Inaugura così il noir di matrice calabrese.

Criaco racconta e descrive quelle realtà minori al limite della civiltà che, nonostante facciano parte di un contesto territoriale inserito in una nazione sviluppata e democratica, sembrano continuare a vivere di leggi e tradizioni proprie, a dimostrazione di una distanza fisica e politica forse irriducibile.

Ieri RaiUno ha mandato in onda “Cose Nostre”, uno show in prima serata nel corso del quale hanno parlato calabresi coraggiosi che stanno resistendo alle logiche della ‘ndrangheta.

Questa la riflessione di Gioacchino Criaco. 

Un po’ mi è spiaciuto vedere sullo sfondo l’Aspromonte a far da cornice a storie così dure, erano addirittura i miei luoghi quelli che scorrevano alle spalle di uomini in lotta: l’Ammendolea, Casalnuovo d’Africo. Sicuramente qualcuno assocerà la montagna al male, ed è ovvio che non sia così, sono gli uomini cattivi a rendere cattivi i luoghi e non viceversa. Sicuramente tanto lavoro fatto per dividere il buono dell’Aspromonte dal male di alcuni ne soffrirà. Ma non è questo il dispiacere più grande, il dolore più forte è proprio quello della nostra grande madre, e le sento umide e calde le sue lacrime mentre parole e storie orribili riempiono le sue orecchie.

Ha ascoltato la pena dei suoi figli, cagionata non dagli alieni, ma da altri che dovrebbero essere figli suoi. E non amo la retorica dell’antimafia, i colpi a vuoto di istituzioni che appartengono a uno Stato che per troppo tempo è stato latitante o ha, addirittura, militato nelle file avverse e non bastano l’onestà e l’impegno di poche e degne persone per avvicinarlo tutto d’un colpo ai calabresi. Ma quelli che si succedevano a sedersi sullo sgabello che dava sulle rovine del castello dell’Ammendolea sono la nostra gente. Ed è vero che spesso ci siamo trovati di fronte a finzioni; le false vittime sono dannose quanto i carnefici veri.

Ieri sera, nel programma in prima serata su Rai Uno, i protagonisti erano calabresi. Calabresi quelli che avevano dei sogni e delle vite, e calabresi quelli che hanno spezzato i sogni e le vite. E non ve lo faccio il giochino di dove stia l’infamia, né vi rifilo prosopopee di ndringhete e ndranghete. Ve lo dico proprio dove stia l’infamia maggiore: fra chi attacca e chi subisce il male peggiore sta in chi assiste. L’infame maggiore è sempre quello, la Calabria vile, quella che si gira dall’altra parte quando il giusto soccombe, quella che sta sempre col più forte, qualunque divisa indossi. Il male impera perché nessuno dei calabresi affianca il giusto quando subisce il colpo, e se il giusto reagisce diventa un cattivo; ma se non vuole, non può, non lo ritiene giusto. Se sceglie come opzione la denuncia, allora, per molti calabresi è un infame.

Per una volta, non siate ignavi, fatevi un’opinione e scegliete su chi addossare la colpa. Smettetela di poggiare la croce su chi vorrebbe solo vivere la propria vita, realizzare i propri sogni; far quello che cavolo gli pare, rispettando gli altri, senza dover dar conto a nessuno.

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