Cosenza, Istituto Papa Giovanni XXIII: il più grande “crac” della storia calabrese

Luberto e Nunnari

di Luigi Guido

Il nuovo corso dell’Istituto Papa Giovanni XXIII di Serra d’Aiello ha dunque inizio con la defenestrazione del suo fondatore don Giulio Sesti Osseo, che, al contrario o persino più di quanto potesse sperare, vedrà la struttura totalmente e definitivamente asservita a un destino malevolo. Quando don Giulio va via lascia un buco nelle casse della struttura pari a 14 miliardi delle vecchie lire, accumulati in circa due anni: da quando cioè la Cassa di Risparmio chiuse i rubinetti dei finanziamenti.

La Conferenza episcopale calabrese (ancora con a capo Agostino) nomina un nuovo presidente designando l’avvocato Chiofalo da Reggio Calabria. Il Consiglio d’amministrazione non perde tempo nel procedere ad un licenziamento in massa, mandando a casa ben 320 persone. Inizia così il vortice infernale di provvedimenti che vengono impugnati, di reintegrazioni forzate, di buste paga gravate da interessi macroscopici e, in definitiva, di tutta una serie di gestioni finanziarie torbide in cui c’entrano ormai non più soltanto i vescovi del demonio ma tutta un’intera classe politico-imprenditoriale che lavora sul giro delle rette e soltanto su questo.

Ciò è anche dimostrato dal fatto che il suddetto avvocato Chiofalo, a un certo punto, rinnovò i contratti scaduti al 31 dicembre 1994, aumentando le buste di circa 500mila lire a lavoratore. Così mentre i 1300 dipendenti rimasti iniziano a sperare di guadagnare più e meglio del solito, si sta in realtà consumando il più grande crac della storia calabrese.

Perché nel frattempo l’istituto è di fatto abbandonato a sé stesso. Nessuno coltiva più le terre, anzi guai a chi vi si avvicina. Nessuno fa più alcuna donazione: le 500mila lire in più in realtà l’Istituto non le guadagna. Nel giro di un anno accade il peggio. Il disavanzo che si accumula (compresi gli interessi passivi, le sanzioni e tutto il resto) resta a tutt’oggi incalcolabile. Nessuno sa a quanto ammonti, né alcun ufficio giudiziario si è mai più preso la briga di risalire alle fonti del disastro (programmato!).

La “torta” di sterco è perciò pronta per essere trasferita dalle mani dell’avvocato Chiefalo a quelle di Don Alfredo Luberto, che gli succede quale nuovo presidente della Fondazione IPG XXIII. La struttura è ora proprietà della chiesa anche nominalmente.

Don Alfredo Luberto non andrà mai in quel di Serra D’Aiello. Gestiranno tutto l’avvocato Antonio Pacillo da Cosenza per la parte legale, Fausto Arcuri per la contabilità, e tale signor Bruno per il personale. Arcuri e Pacillo figurano tra gli indagati nell’inchiesta condotta a suo tempo dal pm Eugenio Facciolla.

Neppure Pacillo, Arcuri e Bruno metteranno mai piede nell’Istituto. Ogni momento della gestione, in caso di necessità d’incontro con il personale amministrativo, avveniva a Cosenza e mai all’interno di una stanza o di uno studio ancor meno presso la Curia cosentina. Gli incontri avvenivano sempre all’aperto e, per l’esattezza, a un tavolino del bar San Francesco in Piazza Europa.

La cricca dei porporati iberna così lo status quo della struttura. Il passivo – quello accertabile – accumulato dall’Ipg XXIII arriva nel giro di poco tempo a superare gli 80 milioni di euro. Contemporaneamente si verificava il saccheggio addebitato a Don Alfredo Luberto, di cui è cronaca degli anni passati: mentre gli ospiti gemevano, giorno dopo giorno e per lungo tempo, nella totale assenza di cibo, di pulizia, di assistenza anche minima, di conforto umano.

Chi ha visitato la struttura in quei giorni, quando c’era davvero ancora il rischio di beccarsi una pallottola in fronte – da chi non voleva che si sapesse cosa stava accadendo – ha visto quanto l’opera del maligno sia stata abile nel trovar dimora tra le mura della chiesa cattolica. L’abominevole storia dell’aborto dei giorni nostri, insieme a quella dell’IPG XXIII di Serra d’Aiello e all’altra, immediatamente successiva ma mai rivelata storia dell’Oasi Francescana a Cosenza, sono ora la cartina di tornasole della condotta storica di un ceto clericale che ha impunemente scritto una delle pagine più buie della vita sociale, ecclesiastica, civile e politica della Calabria.

4 – (fine)