Cosenza, la “trattativa” mafia-stato: che fine ha fatto il superlatitante Pietro Pino?

Pietro Pino Foto tratta da "Cosenza: 'ndrine, sangue e coltelli"

C’è un boss il cui nome aleggia da oltre trentanni come una sorta di fantasma. Latitante dal 1986. E’ quello di Pietro Pino, fratello di Franco, che risulta irreperibile alle forze dell’ordine di tutto il mondo. Eppure il suo nome non esce mai fuori quando si parla della criminalità organizzata cosentina: il solo pronunciarlo sembra essere blasfemia.

Quello che sappiamo di lui lo mette a verbale Antonio De Rose, il primo pentito della mala cosentina, che con le sue dichiarazioni scatena un imponente blitz, che poi si scioglie come neve al sole nel giro di appena qualche giorno. De Rose non parla soltanto di Franco Pino, rivelando che era inserito in una organizzazione delinquenziale più vasta che si collegava ai vertici della ‘ndrangheta del reggino e che il vero capo del clan era il fratello Pietro (oggi poco più che settantenne, visto che è pochi anni più grande di Franco, classe 1952) cui “venivano riconosciute doti intellettive enormi” e “grandi capacità di mediazione”. Non solo: De Rose spiegava ancora che “era capace di organizzare qualsiasi cosa ed era l’unico che all’esterno poteva salvaguardare gli interessi di tutta la banda”. Di conseguenza, anche se nessuno è mai riuscito a capire quale fosse il suo vero ruolo, dev’essere stato proprio lui a creare il collegamento con la ‘ndrangheta reggina e prova di questo ne sarebbe un’altra leggenda che gira sul suo conto. L’unica volta che è stato in carcere prima di diventare primula rossa, “nella sua cella personaggi come Umberto Bellocco di Rosarno e Nino Gangemi di Gioia Tauro avevano con lui un rapporto alla pari”.  C’è anche un libro nel quale si scrive di lui e si intitola “Cosenza: ‘ndrine sangue e coltelli”. Per ironia della sorte è una della tante “creature” di Antonio Nicaso e Nicola Gratteri, sì, proprio lui, l’attuale procuratore della Dda di Catanzaro. Ed è proprio da quel libro che apprendiamo le poche e frammentarie notizie su Pietro Pino e sul suo spessore criminale.

Geometra, studente fuori corso di Giurisprudenza, Pietro Pino è latitante da oltre 30 anni e su di lui ormai sono fiorite molte leggende: si dice che viva lontano dalla Calabria e che abbia cambiato completamente i connotati. L’unica foto segnaletica in possesso delle forze dell’ordine è quella che pubblichiamo, tratta appunto dal libro di Gratteri, dopo che fu pubblicata dalla Gazzetta del Sud in quegli anni bui di guerra di mafia.

Ma scrisse di Pietro Pino e di quell’oscuro 1986 anche il collega Gianfranco Bonofigliio in un articolo de “La Voce Cosentina” che mai come adesso torna di incredibile attualità. Lo riportiamo integralmente.

IL BLITZ DEL 1986: IL PENTITO DE ROSE, PIETRO PINO E LE COPERTURE ISTITUZIONALI

di Gianfranco Bonofiglio

Alle prime luci dell’alba del 14 maggio 1986 scatta a Cosenza il blitz, che, per la prima volta in assoluto, delinea, almeno sul piano accusatorio, l’esistenza di due clan contrapposti in guerra fra loro, senza esclusione di colpi. Ben 1000 fra poliziotti e carabinieri giunti da ogni dove partecipano all’operazione. 179 i mandati di cattura da eseguire e controfirmati dal Procuratore capo del tempo, Oreste Nicastro, e da suoi tre sostituti, Mollace, Licci e Scotto Di Carlo.

Oreste Nicastro (terzo da sinistra)

Di questi 52 vengono eseguiti dai carabinieri, 24 dalla polizia. Altri 56 ordini di cattura vengono notificati in carcere a detenuti per altra causa. In 47 quella notte saranno gli irreperibili, dei quali alcuni si consegnarono successivamente. Da grandi numeri anche la corposa istruttoria che contempla 27 omicidi, 28 tentati omicidi e 13 rapine. Gli stessi omicidi saranno poi oggetto del maxiprocesso Garden, quando il pentitismo assume un ben diverso connotato rispetto al dichiarante De Rose.

E partendo dai numeri del blitz e dalla veridicità delle dichiarazioni del De Rose, che negli anni successivi coincideranno con le dichiarazioni dello stesso Franco Pino, nella sua veste di pentito, il percorso processuale del blitz e la stessa storia di vita di Antonio De Rose consentono di comprendere appieno il livello di omertà, di connivenze e di assenza dello Stato che costituivano l’humus fondamentale di una città assediata dal crimine ed incapace di reagire.

Franco Pino

Antonio De Rose, ex affiliato del clan di Franco Pino, temendo di fare la fine dei suoi amici, Marcello Gigliotti e Francesco Lenti, barbaramente uccisi nei primi di marzo del 1986, si presenta spontaneamente il 10 marzo alla magistratura inquirente del tempo e racconta con dovizia e particolari tutti gli assetti dei clan, fornisce l’elenco completo degli affiliati, addirittura indica il luogo dove sono sotterrati i corpi di persone che non si sapeva che fossero state uccise. Alle dichiarazioni di De Rose vengono aggiunte quelle di Pino Scriva, primo e storico “canterino” della ‘ndrangheta reggina sulle cui dichiarazioni venne celebrato il processo della ‘ndrangheta delle tre province, l’antenato dei moderni maxiprocessi, e del pregiudicato messinese Giuseppe Insolito che aveva frequentato gli ambienti cosentini e che stava collaborando in altri processi. Del lungo elenco degli affiliati ai clan descritto da De Rose, su 179 ben 114 hanno un’età inferiore ai trentanni.

Lo stesso Franco Pino nel 1986 aveva solo 34 anni. Una criminalità giovanissima che aveva saputo trasformarsi da bande di scalmanati di quartiere in organizzazioni temibili e rispettate. E nell’elenco risultano i nomi dei principali protagonisti ed attori del romanzo criminale cittadino. E nel seguito degli anni alcuni facenti parte dell’elenco fornito dal De Rose, vennero uccisi in conflitti interni, altri si pentirono ed altri stanno espiando la massima pena dell’ergastolo. Anche tutto ciò riconferma la validità postuma delle dichiarazioni del De Rose. A Franco Pino il mandato di cattura gli venne notificato in carcere a Palmi, perché già detenuto per altra causa. Il fratello Pietro Pino risultò, ovviamente, fra gli irreperibili essendo già latitante. Latitanza che conservò per tanti altri anni, alimentando ancor più la sua fama di primula rossa.

Ed il De Rose svelerà anche i contorni di tanti e tanti tentati omicidi che dall’80 all’83 contribuirono a far vivere la città sotto la cupa paura del piombo e della violenza. Rivelazioni dettagliate, quelle del De Rose, in un momento storico nel quale non esisteva alcuna legge sul pentitismo e non esisteva alcuna premialità su chi collaborava con le autorità. Si pensò, legittimamente, che tale imponente retata potesse essere decisiva per la sorte dei clan. Invece non fu così.

In perfetto stile tutto cosentino ed in ossequio ad anni in cui tutto era possibile in pochi giorni tutti coloro i quali furono arrestati vennero rimessi in libertà e le dichiarazioni del collaboratore “Ante litteram”, Antonio De Rose, vennero giudicate prive di supporto e di attendibilità con la conseguente scarcerazione per insufficienza di prove. Ed ancora più triste è la storia personale di Antonio De Rose, che dopo aver collaborato è praticamente sparito dalla circolazione andando a vivere al Nord.

Vivendo di stenti e con enormi difficoltà, dopo venti anni è ricomparso ripresentandosi dinanzi ai magistrati chiedendo di riprendere la collaborazione. Aveva vissuto onestamente, lontano dal crimine e ridotto alla fame per la perdita del lavoro. Ma quando riprese la collaborazione vennero fuori dei verbali infarciti da tanti “non ricordo” al punto tale da essere totalmente privi di qualsiasi valenza anche perché i fatti narrati da De Rose erano stati già dettagliatamente spiegati da tanti altri pentiti e le dichiarazioni del De Rose, deflagranti nel 1986, venti anni dopo erano completamente inutili. Al De Rose non rimase altro che uscire nuovamente dalla scena. Nel processo Missing i giudici volevano ascoltarlo in qualità di testimone ma De Rose si avvalse della facoltà di non rispondere e la sua posizione da accusatore passò a quello di accusato, beccandosi una condanna a sedici per la partecipazione ad un delitto.

Sarebbe interessante, comunque, ancora oggi, nel ricostruire il clima di quegli anni poter individuare quelle connivenze e quelle coperture che consentirono la trasformazione di bande di quartiere in vere e propri clan criminali e che contribuirono a far passare Antonio De Rose alla stregua di un visionario o di un ciarlatano, quando, invece, tutto ciò che dichiarò non era altro che quello che realmente avvenne dal 1977 fino al marzo del 1986 allora.

Ma non solo. Le dichiarazioni del De Rose, indussero i maggiori esponenti dei clan in contrapposizione ad impegnarsi per giungere ad una tregua, sia per riprendere gli affari e sia per svelenire il clima. Infatti nel 1986 iniziano i primi approcci fra esponenti di diverse bande fino a giungere nel 1990 alla pace vera e propria siglata da Franco Pino e Franco Perna nel 1990 in un incontro rimasto negli annali del romanzo criminale cittadino che si tenne presso il centralissimo e rinomato Bar Due Palme, ritrovo quotidiano dei vip e della Cosenza – bene.

Garanti della pace raggiunta furono due boss che hanno fatto la storia della ‘Ndrangheta, Giuseppe Pesce di Rosarno e Giuseppe Piromalli di Gioia Tauro. Nella fase processuale seguita alle dichiarazioni di Antonio De Rose molti saranno quelli prosciolti addirittura in fase istruttoria, ma si verificò, inoltre, un fatto che, oggi, non può che apparire incredibile. L’imputazione originaria di associazione mafiosa venne derubricata in associazione per delinquere semplice. Decine di morti, una città in ginocchio, passanti che morivano colpiti da proiettili vaganti, ragazzini di dodici anni uccisi in agguati in pieno giorno, avvocati penalisti uccisi nel proprio studio erano, per la magistratura dell’epoca, frutto di associazione a delinquere semplice e senza alcuna connotazione mafiosa, formata in gran parte da ignoti dato che molti di coloro i quali furono accusati da Antonio De Rose vennero prosciolti finanche nella iniziale fase istruttoria.

Certamente la vicenda De Rose segna il periodo più oscuro mai vissuto a Cosenza per quel che riguarda il probabile livello di collusione e di copertura istituzionale che personaggi insospettabili garantivano ad esponenti della criminalità. Anche se su questo aspetto rimangono solo dubbi e nessuna certezza. Neanche il diffuso e consistente, anche numericamente, fenomeno del pentitismo cosentino ha dipanato i dubbi che, legittimamente, ancora oggi, permangono. Illuminante la dichiarazione del pentito Franco Garofalo, braccio destro del boss irriducibile, Franchino Perna, quando in merito al pentimento avvenuto nel 1993 di Roberto Pagano, picciotto di rispetto con il grado di “sbarrista” vicino al clan Pino, affermò che “il pentimento di Pagano ci faceva paura. Il collaboratore, contrariamente a quanto era accaduto con Antonio De Rose, questa volta era gestito dalla Dda di Catanzaro”.

Fin qui il collega Bonofiglio. Il resto lo conosciamo bene. Il 10 ottobre 1994, a otto anni e mezzo di distanza dal primo blitz, va in scena l’operazione Garden portata a termine dalla nascente Dda e dopo neanche un anno arriva il “ciclone” del pentimento di Franco Pino, gestito invece dalla procura di Cosenza alias porto delle nebbie, che porterà poi al dilagare del collaborazionismo di giustizia mirato all’inquinamento probatorio, pilotato da soggetti come Alfredo Serafini, il successore di Nicastro e Mario Spagnuolo alias il Gattopardo, attuale procuratore di Cosenza. In tutto questo, Pietro Pino risulta ancora latitante nel 1994 e ancora latitante adesso, a oltre trentanni dall’inizio della “trattativa” tra mafia e stato nella città di Cosenza.