Cosenza, l’ombra della massoneria sull’Istituto Papa Giovanni XXIII

di Luigi Guido

Siamo nel 1994. Le province calabresi vivono gli ultimi anni della “prima repubblica della ‘ndrangheta”. Anche la massoneria è molto potente in quel periodo, specie a Cosenza, dove trova un autentico “gemellaggio” persino nella diocesi.

Il vescovo di quel tempo, nella Curia cosentina, è monsignor Dino Trabalzini, amatissimo dai grembiulini delle logge bruzie, oltre che in ottimi rapporti con il mammasantissima della massoneria dell’epoca, quel gran maestro che fu l’ingegnere ex comunista Ettore Loizzo. Tale era lo scenario occulto che si andava formando all’Istituto Papa Giovanni XXIII alle spalle di Don Giulio, il quale, d’altro canto, godeva della stima che incondizionatamente gli accordavano i residenti di Serra d’Aiello, tutti i dipendenti della struttura, i familiari degli ospiti e ogni persona di buona volontà che lo avesse conosciuto. Una stima tale che consentiva al prete di chiedere ai dipendenti della struttura qualunque sacrificio: «Nessuno gli avrebbe mai detto no».

Ettore Loizzo

Sulla leva di tale fiducia, si solleva però la sorte dell’inferno che quel tipo di regia occulta stava già preparando ai danni dell’opera e del suo fondatore. Inizia il giro vorticoso della trasformazione dei contratti, dei tagli al personale, dei ritardi sempre più lunghi nei pagamenti degli stipendi. Ma ormai la mole della forza lavoro era tale che non sarebbe mai bastata alcuna di quelle misure: la coperta sarebbe rimasta sempre corta. Anche licenziare era diventato impossibile.

Il fondatore e – ancora – presidente dell’Ipg XXIII ha bisogno di più liquidi per pagare i licenziamenti. A far la sua parte, dunque, dovrà essere, ancora una volta la Cassa di Risparmio. La banca si dice d’accordo nel fornire l’aiuto necessario. Ma stavolta vorrà un garante più solido. Dovrà essere la Curia, guarda caso, il giusto fideiussore di un siffatto impero economico. Il gioco è, così, presto fatto. Don Giulio si rivolge al vescovo Trabalzini che, forse forse in combutta con la Carical, rifiuta di prestare la garanzia.
Il finanziamento non arriverà mai più. Don Giulio non può licenziare nessuno e, nel frattempo, non può pagare gli stipendi.

Corre l’anno 1995 e Don Giulio, che sino a quel momento aveva agito praticamente da solo, decide di rivolgersi – malvolentieri – alla Conferenza episcopale calabrese, presieduta da Giuseppe Agostino ancora vescovo di Crotone. Il presidente Agostino promette l’aiuto a patto che Don Giulio nomini un Consiglio d’amministrazione scelto dai vescovi della Conferenza. Tra i gli alti prelati della CEC interessati al sacco dell’IPG XXIII c’è anche quello che succederà ad Agostino, prima nell’incarico di presidente della Conferenza Episcobale Calabrese e poi in quello di vescovo dell’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano. Un successore che ha pure un altro legame particolare con Agostino, poiché sono entrambi originari di Locri. Il suo nome è Salvatore Nunnari…

A settembre del ’95 s’insedia il nuovo CdA formato dai vescovi delle cinque province calabresi. Il “conclave” si scontrerà però ben presto con il padre dell’opera Serrese. Il quale contestava ad ogni pié sospinto le decisioni del CdA che, di fatto, sovvertivano negli scopi e nello spirito la gestione (e dunque il destino) dell’Istituto.

Lo strappo tra Don Giulio e l’alto clero calabrese si manifesta nei suoi più virulenti effetti quando la Conferenza episcopale, ancora sotto l’egida di Giuseppe Agostino, mette il prete davanti ad un aut aut: dimettersi o restare abbandonato da tutti.

Un aut aut che ricorda molto, troppo da vicino quello denunciato ai giorni nostri da Le Iene, dopo il racconto della ragazza costretta a subire l’aborto del figlio avuto con l’ex parroco di San Vincenzo La Costa. Anche a lei, da quanto ha denunciato, un Salvatore Nunnari in piena forma ha perentoriamente posto due possibilità: abortire oppure subire onta e abbandono.

Gli aut aut di lor signori si dimostrano efficaci, però. Sicchè come la nostra ragazza, anche Don Giulio, all’epoca, temendo di rimanere solo e di vedere andare alla deriva il destino dei suoi ospiti e dei dipendenti dell’Istituto, danneggiando ogni singolo operatore e ogni singola operatrice (quasi tutti con una famiglia a carico), accettò il “cortese” invito.
Il 2 ottobre 1996 il fondatore dell’Istituto rassegna, obtorto collo, le sue dimissioni. E si ritira nel suo paese di origine a Belmonte Calabro. Forse sperando in un fato benevolo per l’Istituto…

3 – (continua)