Cosenza, omicidio Ruperti un mese dopo. Il papà di Antonio: “Non ci fermeremo, vogliamo verità e giustizia per Totò”

E’ passato un mese. Era il 9 settembre, un sabato mattina quando alle 11,35 nel quartiere di Torre Alta a Cosenza la motocicletta Aprilia Pegaso 650 con alla guida il giovanissimo Antonio Ruperti viene speronata da un’auto civetta della polizia, una Jeep Renegade, che non gli ha dato la precedenza non rispettando il codice della strada. Alla guida c’è l’agente dell’Ufficio Volanti Gianmarco Minervino e con lui ci sono il capo pattuglia Cataldo Pignataro, vicequestore declassato al ruolo di capo dell’Ufficio Immigrazioni e l’agente Carelli. Non si è ancora capito cosa ci facessero a Torre Alta in un assolato sabato di inizio settembre con il Tribunale e l’Ufficio di Pignataro chiuso. Dicono soltanto che è stata una tragica fatalità senza dare altre giustificazioni. Punto e basta.

Antonio Ruperti viene soccorso e trasportato in ospedale ma muore per la gravità dei traumi riportati. A un mese di distanza la verità non è ancora uscita fuori. Sulla vicenda è calato un silenzio assordante e sospetto, soprattutto da parte della questura di Cosenza.

I genitori di Antonio Ruperti stanno vivendo giorni terribili. Vittorio Ruperti e Laura Bevacqua non sanno darsi pace e vogliono giustizia. Assistiti dall’avvocato Mario Scarpelli (il cui intervento nell’immediatezza dell’incidente è stato fondamentale per evitare che si insabbiasse tutto), hanno denunciato i tre poliziotti che si trovavano a bordo della Jeep Renegade che ha speronato Antonio.

Gianmarco Minervino, che era alla guida della Jeep, è al momento l’unico indagato dell’inchiesta aperta dalla procura di Cosenza. I genitori di Antonio Ruperti ritengono che quando su un mezzo in dotazione alle forze dell’ordine c’è un capo pattuglia, questi è responsabile diretto di ogni azione compiuta da chi ha un grado inferiore al suo; in questo caso i due agenti, a partire da colui che conduceva la Jeep. I familiari di Ruperti sono giunti a questa decisione dopo aver constatato che dalla procura non arrivavano notizie riguardanti gli altri due poliziotti e di conseguenza si sono recati nella caserma dei carabinieri “Grippo” di Cosenza per presentare denuncia per concorso in omicidio. Ad avvalorare la denuncia dei genitori di Antonio, gli accertamenti tecnici non ripetibili sui luogo della tragedia. 

Era il 15 settembre quando la procura di Cosenza, nella persona del pubblico ministero Luigia D’Andreaha disposto ai sensi dell’articolo 360 del codice di procedura penale, gli accertamenti tecnici non ripetibili. Si tratta di accertamenti che riguardano persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto a modificazione per cause naturali o a causa della stessa attività accertativa e che, data la loro irripetibilità, sono destinati ad acquisire a tutti gli effetti valore di prova (art. 360).

Più tecnicamente, “quando gli accertamenti previsti dall’articolo 359 riguardano persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto a modificazione, il pubblico ministero avvisa, senza ritardo, la persona sottoposta alle indagini, la persona offesa dal reato e i difensori del giorno, dell’ora e del luogo fissati per il conferimento dell’incarico e della facoltà di nominare consulenti tecnici”.

Agli accertamenti hanno preso parte il consulente nominato dalla procura di Cosenza, il consulente della parte offesa – Giorgio Zicarelli – e il consulente del poliziotto alla guida dell’auto civetta. I consulenti hanno anche visionato le immagini girate dalle telecamere di videosorveglianza.

Antonio Ruperti indossava il casco, manteneva regolarmente la destra, non arrivava direttamente da via Panebianco ma da una traversa e di conseguenza non poteva avere raggiunto una velocità eccessiva. Viaggiava al massimo a 50-60 km/h.

La Jeep Renegade, invece, rallenta frenando prima di arrivare all’incrocio ma poi accelera improvvisamente colpendo in pieno la motocicletta e senza aver verificato in nessun nodo se passasse qualcuno, anche a causa della particolare natura dell’incrocio, penalizzato da una pressoché assente visuale, che tuttavia a maggior ragione avrebbe dovuto consigliare prudenza.

L’INTIMIDAZIONE

Ma a questo punto c’è un altro episodio che irrompe sulla scena. Giorgio Zicarelli, il consulente tecnico della famiglia di Antonio Ruperti, ha subito un atto di intimidazione e ha presentato denuncia ai carabinieri.

La mattina di lunedì 2 ottobre, entrando nella sua abitazione a Rende, ha notato una busta di plastica attaccata all’estintore in dotazione al palazzo per eventuali emergenze. Zicarelli ha aperto la busta e ha trovato tre proiettili di fucile da caccia e un inquietante messaggio scritto con un normografo nel quale si leggeva: “Ora basta. Ruperti è morto per un incidente, lascia stare la polizia. Attento che la tua famiglia prova questi tre proiettili”.

Zicarelli ha provato a chiedere a qualcuno degli inquilini se avesse visto qualche estraneo entrare nel portone ma ha ricevuto risposte negative e subito dopo si è recato alla caserma dei carabinieri per denunciare l’accaduto. Di conseguenza, una pattuglia dei carabinieri ha raggiunto l’abitazione di Zicarelli per sequestrare il contenuto della busta di plastica.

Da qualche settimana, Zicarelli, per espletare la sua funzione di consulente della famiglia Ruperti, ha “scavato” a fondo in questa squallida vicenda dell’omicidio di un ragazzo determinato dalla deriva umana di un poliziotto graduato e declassato e di due suoi fedeli scagnozzi. 

Giorgio Zicarelli, in particolare, solo qualche ora prima dell’intimidazione subita, ha “scoperto” una circostanza molto strana nel momento in cui si svolgevano gli accertamenti irripetibili sul luogo dell’omicidio e l’ha fatta verbalizzare. I telefoni cellulari dell’agente dell’Ufficio Volanti Gianmarco Minervino (indagato per omicidio dalla procura di Cosenza) e del capo pattuglia, il vicequestore declassato nonché capo a lungo proprio dell’Ufficio Volanti Cataldo Pignataro (denunciato per omicidio dai genitori di Antonio), sequestrati dai carabinieri, che stanno svolgendo le indagini sul caso, sono risultati stranamente scarichi.

Diciamo “stranamente” perché il dubbio che ha il consulente è che siano stati “manomessi” da qualcuno che evidentemente aveva timore che vi si trovasse dentro qualche prova rispetto a quanto è accaduto quella maledetta mattina. In particolare, qualche ordine di servizio impartito dal vicequestore declassato o qualche comunicazione ricevuta “al volo” da qualche altro soggetto interessato a fermare la marcia della motocicletta sulla quale viaggiava Antonio ma che – come tutti sanno – è di proprietà di un soggetto “attenzionato” da tempo dalla polizia.

E’ del tutto evidente che la piega che stanno prendendo le indagini non “piace” a qualcuno. Da qui l’intimidazione al consulente Zicarelli, che giustamente ha denunciato tutto ai carabinieri che indagano sull’omicidio del ragazzo.

“NON CI FERMEREMO”

Vittorio Ruperti, il papà di Antonio, ha già commentato sui social questa sconcertante notizia e ci telefona per ribadire il concetto: “Vogliono impedirci di arrivare alla verità e vogliono fermare le indagini: questo è quello che esce fuori dall’intimidazione al nostro consulente. Devono sapere che non ci fermeremo davanti a niente e che vogliamo giustizia. Tutti gli accertamenti hanno dimostrato che c’è stato un omicidio e quello che è accaduto non può essere dimenticato o cancellato. Lo dobbiamo a mio figlio, al nostro Totò”. Una messa di suffragio sarà celebrata alle 19 nella chiesa di Cristo Re di via Popilia.

LA RICOSTRUZIONE

Visto che di dare spiegazioni la questura non ne ha voglia, ci siamo adoperati per capire se la tesi della fatalità è la unica e sola pista da seguire. E per capire che non è la sola pista da seguire bisogna provare che l’autocivetta era lì in servizio proprio in attesa della moto Aprilia Pegaso 650. Ricostruiamo, perciò, le fasi precedenti all’omicidio di Antonio e quelle immediatamente successive, convinti di poter dimostrare che l’autocivetta si trovava nel quartiere di Torre Alta sulle tracce proprio della moto, e quindi in servizio.

La notizia dell’incidente di Antonio, avvenuto alle ore 11,35 di sabato 9 settembre, in pochi minuti fa il giro della città e sul posto si reca, attorno alle 12,30, anche il proprietario della moto Valentino De Francesco. Che subito si “presenta” ai poliziotti dichiarando di essere il proprietario della moto e che Antonio l’aveva presa a sua insaputa. I poliziotti gli chiedono se può provare quello che dice e si recano a casa del De Francesco per acquisire le immagini, riprese dalle telecamere installate presso la sua abitazione, che dovrebbero testimoniare quanto da lui sostenuto. Una volta in casa, i 4 poliziotti in borghese, dopo un breve ma intenso battibecco con la proprietaria, prendono visione delle immagine e invitano il De Francesco in questura per acquisire anche le immagini delle telecamere presenti nel suo telefonino. Ad operazione ultimata viene “rilasciato”.

Le immagini acquisite mostrano Antonio che, alle ore 11,18, indossato il casco bianco, sale sulla moto parcheggiata in via Montagna, e parte da solo. A quell’ora il De Francesco non è in casa a detta della compagna che, in un lungo post su Fb, racconta le ore precedenti alla tragedia. Diventa verosimile la versione fornita dal De Francesco che afferma che Antonio si è impossessato della moto “ara mmucciuni”. Non è stato lui a consegnare le chiavi della moto ad Antonio. Le chiavi erano infilate nel quadro. Se lo scopo dei poliziotti che si precipitano a casa del De Francesco era quello di addossargli “l’incauto affidamento”, per spostare l’attenzione mediatica sul pregiudicato che non si fa scrupoli ad affidare una moto di grossa cilindrata ad un ragazzino, il tentativo si può dire fallito.

Le immagini e i testimoni scagionano De Francesco.  E allora provano a proporgli di denunciare per furto della moto Antonio. Anche un ladro di moto che corre a 130 all’ora può essere un buon “catalizzatore mediatico”. Ovviamente il De Francesco si rifiuta. L’impressione è quella che sin da subito la questura si adoperi per tenere sotto controllo le notizie. Ma la velina diffusa sul proprietario pregiudicato senza scrupoli della moto, senza assicurazione e revisione, guidata da un ragazzino senza patente, che correva a 130 all’ora “nei vicoli del quartiere”, non attecchisce. E non potendo svelare il “segreto di Pulcinella”, ovvero che stavano lì per beccare la moto, decidono di ripiegare sulla fatalità della tragedia, da qui le tante scuse di cui sopra.

La tesi da sostenere è la fatalità. L’autocivetta passava da via Martorelli per puro caso. Ma i fatti parlano. E a quelli ci atteniamo: De Francesco è finito nel lungo elenco dell’operazione “Reset”, ma non risulta tra i rinviati a giudizio, nel giugno del 2023 è agli arresti domiciliari, e ci resterà fino al 10 agosto, per una storia di una “piantagione di erba”. In quel periodo presso la sua abitazione vengono effettuate diverse perquisizioni, con tanto di cane antidroga proprio dalla polizia. Sempre con esito negativo. I controlli presso la sua abitazione sono all’ordine del giorno, anche per via delle misure di “prevenzione” a cui era sottoposto. Un volto noto alla squadra mobile. Il classico “attenzionato” che non passa certo inosservato ad un posto di blocco. La sua moto e la sua auto, se viste in giro per la città, sono “na paletta sicura”, come si dice a Cosenza.

Ed è proprio in questo contesto che arriva all’orecchio di qualche questurino una bella soffiata proprio sul De Francesco. Soffiata che viene gestita dal vicequestore declassato Pignataro, a cui è stata evidentemente fatta, in cerca di riscatto professionale. Il suo informatore gli ha spifferato che spaccia. Sa che il De Francesco ha in uso una moto Aprilia 650 Pegaso, e un’auto. E allerta qualche suo discepolo: sguardo vispo e occhio vivo, direbbe il commissario Manara. Ma di sgami neanche l’ombra. Il confidente insiste, e il vicequestore declassato intensifica, nei giorni precedenti all’omicidio, l’attività investigativa di quella che assume sempre più i contorni di una iniziativa personale. Un dato confermato dalla “fuga di notizie” sui famosi tre giorni, che precedono l’omicidio, di attenzione sugli spostamenti del De Francesco.

Il vicequestore declassato Pignataro vuole ritornare a giocare in serie A, come direbbe l’ispettore Coliandro, e ha bisogno di una brillante operazione. Ma lavora all’ufficio immigrazioni e non può svolgere investigazioni, e pattugliamenti. Ed è per questo che coinvolge gli agenti Carelli e Minervino. Essendo un loro superiore può chiedergli di farsi “un giro” insieme sull’autocivetta, magari promettendogli un bell’arresto. Di sabato l’ufficio immigrazione è chiuso ed ha voglia di ritornare all’azione. Ha tutte le informazioni che gli servono per far scattare le manette. Deve solo aspettare il momento giusto. Che si presenta proprio quel sabato mattina quando la moto viene segnalata da una volante via radio mentre imbocca via Panebianco. L’autocivetta con i tre poliziotti a bordo raccoglie la segnalazione, ed essendo già in zona proprio perché in attesa dello “spacciatore”, si adopera per intercettarla. E nell’azzardo della manovra, sollecitata dalla smania di bloccare il “criminale”, sperona la moto con a bordo Antonio.

Ma perché Antonio si trovava quella mattina a bordo della moto di De Francesco? Antonio frequentava casa di Valentino De Francesco da qualche mese. Valentino lo conosceva da quando era bambino per via della vecchia amicizia con il padre. Andava e veniva da casa sua come uno di famiglia. Antonio frequentava l’Istituto Alberghiero, e amava le moto. Nonostante la giovane età aveva già dimestichezza con le due ruote. E le cavalcava ogni volta che poteva. Ogni occasione era buona per inforcare la moto e farsi un giro. Come avvenne quella mattina. Il richiamo di una potente 650 deve essere stato per lui irresistibile. Doveva andare dal parrucchiere, così aveva detto il giorno prima alla compagna del De Francesco. E presa la moto si avvia verso il suo destino.

Lo speronamento della moto è l’irresponsabile conseguenza dello scellerato intervento di un dirigente di polizia in cerca di rivalse professionali, come rimedio alla sua chiacchierata carriera. Sperava di fare il colpaccio e di prendersi il merito, ma le cose, proprio perché privo di professionalità, gli sono sfuggite di mano. Come tante altre volte del resto. Sulla moto c’era Antonio e non il trafficante di droga che sperava ci fosse.

Come giustificare tutto questo? Non possono certo dire che aspettavano la moto per iniziativa personale del vicequestore declassato in cerca di medaglie. E nemmeno possono giustificare l’intervento con la scusa di aver assistito ad una flagranza di reato. La fatalità, per tutelare l’immagine della questura, è l’unica strada da seguire. Se venisse fuori la verità i vertici della questura dovrebbero spiegare il perché della presenza del vicequestore declassato Pignataro a bordo di un’autocivetta in servizio in un quartiere popolare. Il questore, il capo della mobile si troverebbero nell’imbarazzante posizione di dover spiegare se l’intervento del vicequestore declassato rientrava in un più ampio piano operativo mirato alla “repressione dello spaccio”, oppure no. Non possono confessare che il vicequestore declassato era nell’autocivetta non certo per questioni inerenti il suo Ufficio Immigrazioni, ma per altro di cui loro non sapevano e non sanno nulla. Che figura farebbero? Perciò preferiscono tacere. Dire la verità significherebbe ammettere che in questura chini si aza primu a matina cummanna… e fa quello che gli pare”. E quel maledetto sabato mattina di un mese fa il primo ad alzarsi è stato il vicequestore Pignataro. E su questo non ci sono dubbi. Così come non ci sono dubbi che la famiglia di Antonio non si fermerà nella sua ricerca di verità e giustizia.