Crotone, accanimento contro il chirurgo Brisinda: tutti i retroscena

Giuseppe Brisinda

C’è un  primario di chirurgia, qui a Crotone, che da quasi due mesi non opera più alcun paziente. Non si reca nemmeno al lavoro. Non può. E’ stato sospeso. Un mese, poi un altro e infine il diktat: quattro mesi a casa. E questa volta senza stipendio. La vittima di quello che è a tutti gli effetti un vero e proprio accanimento si chiama Giuseppe Brisinda, chirurgo e ricercatore universitario che dopo due anni di servizio al San Giovanni di Dio di Crotone è stato sbattuto fuori con accuse tanto assurde quanto fumose. A Brisinda vengono contestate diverse cose, molte delle quali appaiono del tutto infondate, contraddittorie, prive di alcun riscontro e non verificate a dovere.

Partiamo dal principio. Giuseppe Brisinda è uno stimato chirurgo generale il cui curriculum parla da sé. Nato a Cosenza nel 1964, si laurea a pieni a voti in Medicina e Chirurgia all’Università Cattolica del Sacro Cuore a cui aggiunge, con tanto di lode, due specializzazioni: una in chirurgia d’urgenza e l’altra in urologia. Presso la sede romana della stessa università diventa ricercatore. Sempre a Roma prende servizio al Gemelli dove esercita la professione di chirurgo.

Un CV così, a Crotone, non si vedeva da tempo. Probabilmente non si è mai visto. Un vero toccasana per la città, da sempre confinata nella mediocrità non soltanto politica ma anche ospedaliera (tanti dottori, pochissimi veri medici).

Sta di fatto che Brisinda, dopo aver trascorso una vita professionale ai massimi livelli, decide di tornare a casa, in Calabria, per restituire qualcosa di buono alla propria terra. Porta con sé l’esperienza pratica di alto rango maturata in sala operatoria e quella tecnica acquisita con titoli accademici a suon di lodi. Fa regolare concorso, sollecitato anche dal DG dell’Asp di Crotone, Sergio Arena, e lo vince. Nel 2016, dunque, lascia la civiltà ospedaliera romana e approda nella città dei mediocri al potere.

Quello che trova a Crotone è un ospedale privo di qualsiasi presidio di modernità, efficienza, controllo e competenza. Ascensori per i pazienti utilizzati dal pubblico; montacarichi per il trasporto dei rifiuti ospedalieri utilizzati anche dai pazienti (con annessi rischi); famigliari che rimangono a dormire la notte; mercato (nemmeno tanto “nero”) di sedie sdraio; strutture fatiscenti; sistema di climatizzazione non adeguato; scarsità di strumenti come ad esempio i defibrillatori; mancanze di sale adeguate; fumatori indisturbati nei corridoi; carenza di igiene; camere senza bagni. Insomma, l’ospedale che tutti conoscono e che rispecchia appieno lo stato di inedia di questa città, distrutta dalla politica clientelare insediatasi ovunque e dal malaffare che con questa malapolitica ci va a cena. E non solo a cena.

Brisinda però si rimbocca le maniche e rende il reparto di chirurgia generale più efficiente e professionale. Nel solo 2016 gli interventi passano da 300 a 800 – chiaro segno di linfa nuova in corsia – e moderne tecniche per combattere i tumori vengono introdotte per la prima volta a Crotone e in Calabria. Non solo, Brisinda si prodiga per rispondere alle esigenze della popolazione e così nasce a Crotone l’ambulatorio di senologia. Prima del suo arrivo era fantascienza e fino alla sua sospensione una realtà. Brisinda dà vita a un piccolo quanto importante ambulatorio dedicato alle donne. La mentalità è diversa e i risultati lo confermano.

Ma qualcosa, improvvisamente, si incrina. Non solo con parte dell’equipe medica. La sua presenza all’interno dell’ospedale probabilmente infastidisce alcuni vecchi tromboni titolari di primariati senza posti letto, amici stretti di quella politica clientelare che fa le nomine interne. Il 28 dicembre 2017 viene sospeso, ma solo pochi giorni prima il suo principale “sponsor”, il DG Arena, lo incensava sui giornali.

Brisinda si trova quasi tutti contro. Gli vengono attribuiti dieci omicidi colposi e viene accusato di aver introdotto tecniche oncologiche pericolose per i pazienti, di non rispettare la rotazione dei chirurghi, di operare in ambienti non idonei, di esternazioni sui social media e di una serie di altre cose che vedremo nei prossimi articoli. Molte di queste accuse – rivelatesi poi determinanti per l’epurazione del chirurgo – provengono da un questionario sottoposto al personale medico dal Risk Manager dell’azienda, Massimo Rizzo. I risultati, incredibilmente, vengono presi come oro colato dai dirigenti che non verificano alcunché, men che meno prendono in considerazione la possibilità che ci possa essere qualcosa di poco chiaro dietro questo ammutinamento collettivo.

Nessun complotto. Semplice constatazione.

Vediamo nel dettaglio, infatti, le accuse e le motivazioni che hanno spinto gli scienziati della dirigenza ospedaliera locale a sospendere per sei mesi, quattro dei quali senza stipendio, il dottor Brisinda (uno dei pochi veri professionisti che l’ospedale di Crotone possa  vantare da parecchi anni a questa parte).

Tra le accuse presenti nel verbale di sospensione, redatto dal dottor Lucio Cosentino, direttore sanitario dell’ospedale, che hanno portato all’allontanamento di Brisinda, c’è l’utilizzo di una procedura oncologica ritenuta pericolosa per la salute dei pazienti. Si tratta di una tecnica chemioterapica, l’Hipec (chemioterapia intraperitoneale ipertermica), utilizzata dall’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, dal Gemelli di Roma e da una ventina tra i più importanti ospedali italiani dislocati sull’intera penisola. Una tipologia diversa di chemioterapia, più incisiva: il mix di farmaci, portato a una temperatura di 41°, agisce direttamente sul tumore anziché per endovena. Questo permette di combattere più drasticamente le cellule tumorali ripresentatesi e di aumentare le percentuali di guarigione dei tumori dello stomaco, del peritoneo e dell’ovaio.

Una tecnica che, come detto, viene apprezzata, utilizzata e consigliata dai medici dei più importanti centri oncologici italianima che dagli «specialisti di rischio clinico dell’Asp» di Crotone, luminari incompresi evidentemente, è ritenuta «pericolosa». Brisinda l’ha utilizzata su tre pazienti, tutti e tre attualmente ancora in vita. Di pericolosa c’è l’ignoranza al potere, direbbe qualcuno.

La questione, dunque, diventa di fondamentale importanza: com’è possibile che una simile terapia, autorizzata dalla stessa azienda sanitaria, venga definita pericolosa sulla base di un questionario sottoposto al personale medico? A che titolo l’equipe definisce pericolosa l’Hipec? E ancora: come hanno fatto Arena e Cosentino ad avallare una simile ipotesi? Perché, al tempo, Arena l’autorizzò? Prima viene autorizzata e poi definita pericolosa (non si capisce bene da chi) e addirittura non codificata. Qualcuno avrà sicuramente sbagliato qualcosa, di certo non Brisinda reo – si fa per dire – di averla introdotta, con grande lungimiranza, a Crotone.

Ricapitolando: un primario iperqualificato, con un’esperienza trentennale maturata sul campo e con studi e specializzazioni di altissimo livello, viene sospeso perché qualcuno – senza le dovute competenze – reputa pericoloso un trattamento oncologico che nel resto d’Italia è da tutti riconosciuto come innovativo. Ma c’è di più: i dirigenti, anziché verificare (sarebbe bastata una banale ricerchina su Google o, più semplicemente, ricordarsi di averlo autorizzato), prendono per buone risposte che, allo stato delle cose, risultano prive di fondamento. Una barbarie vera e propria.

Ma non è finita qui. A Brisinda viene contestato l’utilizzo sconsiderato dei social media. Nei verbali non c’è una prova –  u n a – che attesti quanto riportato dai colleghi del chirurgo. Il dirigente Cosentino, in un documento, riferisce – testualmente – di «esternazioni del primario sui social media». Quali non è dato saperlo. Esternazioni. Punto. Quello che si evince, per la seconda volta, è che un iperqualificato chirurgo viene privato dello stipendio, e dalla possibilità di poter operare, sulla base di accuse generiche non riscontrate da prove. Insomma, più che da uno stato occidentale, questa brutta storia sembra provenire diritta diritta da una qualunque Repubblica delle Banane dove le garanzie dei cittadini vengono calpestate e date in pasto ai media. Proprio come sta accadendo a Brisinda, la cui immagine ne esce ampiamente danneggiata da questa vicenda. Viene accostato sui giornali a diversi omicidi colposi quando nei suoi confronti non c’è alcuna indagine in corso, così come conferma il “protocollo 335” richiesto in Procura – nel gennaio scorso – dallo stesso dottore.

Ma, come accennato all’inizio, le accuse che hanno portato a questo increscioso epilogo risultano quantomeno fumose. Prendiamo in esame la questione della mancata rotazione. E’ accusato di non aver rispettato la turnazione dei chirurghi all’interno della sua equipe, ma il regolamento parla chiaro: il primario si affida a chi ritiene più capace. Non solo: nel codice di comportamento nazionale si parla di incarichi operativi «assegnati in base alla professionalità e, per quanto possibile, in base a criteri di rotazione», mentre in quello aziendale i tanto chiacchierati “criteri di rotazione” sono stati eliminati. La sintesi è disarmante: la stessa azienda che gli contesta una mancata rotazione non prevede, nel proprio regolamento, la rotazione. Chapeau.

In termini di approssimazione e poca chiarezza, questo è niente. Sempre il dottor Lucio Cosentino, infatti, a un certo punto scrive di essere stato contattato da due colleghi che lo informavano di un grave episodio verificatosi all’interno del reparto di chirurgia. Continua dicendo di essersi recato sul posto per verificare quanto gli era stato detto e il tutto corrispondeva al vero. Cosa avrà visto di così tanto grave? Non si sa. Perché? Perché non viene riportato. Zero, nessuna contestualizzazione. Eppure il regolamento dice che la contestazione di un addebito deve contenere l’esposizione chiara e puntuale dei fatti. Insomma, la fumosità attorno alla vicenda supera quella di una ciminiera in attivo.

Il capolavoro, tuttavia, si concretizza quando a Brisinda vengono contestati «interventi chirurgici in anestesia locale eseguiti in ambulatorio in condizioni igieniche non adeguate, senza personale specializzato e senza i presidi di primo soccorso». Uno: si chiama «chirurgia ambulatoriale» proprio perché sono interventi di minore entità che si eseguono in ambulatorio; due: la sporcizia delle sale non dipende dal dottore il quale opera nelle condizioni che la direzione gli offre (l’ospedale di Crotone è tristemente noto per la scarsità di igiene); tre: in tutta Italia la selezione del personale infermieristico non dipende dai primari; quattro: il reparto è sprovvisto dei presidi fondamentali per la gestione delle urgenze critiche.

Capite bene che, a questo punto, la sola colpa imputabile a Brisinda è quella di aver lasciato l’appagante vita professionale romana per approdare qui, dove l’ostentazione della mediocrità (unita all’amicizia politica) è l’unico curriculum che conta.

Titoli di giornale assurdi e uno stormo di voci negative che abbatterebbero chiunque. Ma non sembra essere questo il caso, con un Brisinda determinato a restare (potrebbe tranquillamente trovare lavoro altrove) e a combattere fino alla fine. Anche perché dalla sua ha la tanta gente che lo ha conosciuto e non ha esitato un secondo a mostrargli, coi fatti, la propria solidarietà: non appena la notizia è diventata pubblica, i pazienti, gli ex pazienti e i parenti di questi hanno promosso spontaneamente una raccolta firme per chiederne il reintegro immediato. Oltre 2500 firmatari certificati in pochissimo tempo. A dimostrazione di come l’ennesima accusa nei confronti del dottore – «disumanizzazione del rapporto medico –  pazienti» – risulti ampiamente discutibile se non del tutto infondata. La gente che nella sfortuna ha avuto la fortuna di finire nelle mani di un medico di talento e perbene come lui ne parla benissimo. Le tante firme, e non solo le firme, ne sono la prova. Al contrario di quelle che – finora – sono mancate nel cosiddetto “caso Brisinda”.

di Antonio Belluomo Anello
Il Pitagorico (https://ilpitagorico.com/)