Governo di minoranza del centrodestra: Salvini come Andreotti?

Nella storia della Repubblica i governi di minoranza sono stati sempre una possibilità remota, solo due casi: governo Leone I (1963) e governo Andreotti III (1976). Ma nella legislatura nata con il voto del 4 marzo, il governo di minoranza potrebbe essere una possibilità concreta per uscire dall’impasse. Almeno sulla carta. Il nuovo regolamento del Senato, approvato in calcio d’angolo il 20 dicembre dell’anno scorso, di fatto agevola la nascita dei governi di minoranza, cioè di quei governi che non hanno la maggioranza assoluta nelle Camere ma riescono a vedere la luce grazie alla scelta di una parte dell’opposizione di astenersi. Potrebbe succedere con l’astensione del Pd nei confronti di un governo di centrodestra, come hanno fatto i socialisti spagnoli con il conservatore Rajoy due anni fa.

Vediamo. Prima dell’approvazione del nuovo regolamento del Senato, che ha avuto l’ok quasi unanime dell’aula agli sgoccioli della scorsa legislatura, a Palazzo Madama l’astensione valeva come no, ai fini del conteggio dei voti. Per ‘astenersi’ bisognava uscire dall’aula. Il nuovo regolamento invece ricalca quello della Camera. E quindi, come a Montecitorio, d’ora in poi anche al Senato si avranno a disposizione tre possibilità di voto: sì, no, astensione. Restando in aula.

Cosa significa ai fini della soluzione del rebus di governo uscito dalle urne, che non hanno indicato una maggioranza autonoma per un nuovo esecutivo? Il nuovo regolamento agevola la posizione di quei gruppi che dovessero decidere di astenersi sulla nascita di un nuovo esecutivo. Non sarebbero più obbligati a uscire dall’aula al Senato, eviterebbero insomma passeggiate scenografiche in Transatlantico che, data la situazione, potrebbero risultare alquanto imbarazzanti.

Ed è questa la cornice che rende realistica l’ipotesi della nascita di un governo di centrodestra con l’astensione del Pd, uscito sconfitto dalle urne ma ago della bilancia per la formazione di un nuovo governo. Al contrario, per dare il via a un governo del M5s (227 deputati, 112 senatori), il Pd sarebbe costretto a votare sì, senza se e senza ma, altrimenti i numeri in aula non sarebbero sufficienti. E un sì ad un governo Di Maio, principe dei nemici dei Dem in questa campagna elettorale, viene ritenuto alquanto imbarazzante non solo nelle aree renziane ma anche in quelle non renziane (eccezion fatta per l’area Emiliano).

Invece il centrodestra da solo conta 265 deputati e 137 senatori, più di ogni altro gruppo o coalizione. Basta che il Pd si astenga per dargli il via libera. E con il nuovo regolamento del Senato, i Dem non sarebbero nemmeno costretti a uscire dall’aula per qualificare la propria astensione: niente passeggiate imbarazzanti, solo astensione nel chiuso dell’aula.

Certo, poi è assicurato lo strascico di polemiche. Ma la possibilità è lì sulla carta: meglio che tornare al voto anticipato, appuntamento che coglierebbe il Pd del tutto impreparato.

Tornando ai precedenti, è ancora abbastanza vivo il ricordo del terzo governo di Giulio Andreotti nel 1976, che nonostante fosse un governo di minoranza, rimase in carica addirittura un anno e 7 mesi, un vero record per quei tempi. Eppure quel governo ottenne la fiducia del Senato con appena 136 voti e alla Camera con 258 voti. Numeri uguali o addirittura inferiori rispetto a quelli del centrodestra di oggi. Decisiva fu l’astensione del Partito Comunista di Berlinguer che diede vita al cosiddetto “Governo della non sfiducia“ o se preferite a quel “compromesso storico” che fu il preludio agli anni di piombo. 

Oggi il governo di minoranza consentirebbe al Pd e a tutte le forze di sinistra di rimanere all’opposizione e ricostruirsi un’identità smarrita (!!!), e taglierebbe fuori il Movimento 5 Stelle, a cui comunque andrebbe la presidenza di una Camera. Basterà per “addormentare” tutti? Noi pensiamo proprio di no, anzi…