Gruber-Gratteri e l’omicidio di Willy: mentalità fascista o mentalità mafiosa?

di Giustiniano Bono
“Logiche d’autore” nel duetto Gruber-Gratteri: si applichi l’aggravante del metodo mafioso agli assassini di Colleferro.

Parlando dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte, ucciso di botte nella notte tra il 5 e il 6 settembre a Colleferro, la senatrice Liliana Segre ha affermato: “Terribile. Il pestaggio di quel ragazzino non solo mi ha colpito, ma mi ha suscitato tormenti e ricordi terribili. L’ho trovata una barbarie assoluta”.
E ha aggiunto: “La morte di Willy mi ha fatto molta paura. È stata come una sconfitta personale, mi ha fatto pensare che tutto ciò che ho provato a fare contro la violenza e l’odio, alla fine è servito a poco”. Quindi ha concluso: “Se ancora ci sono in giro persone che pensano di risolvere le proprie sconfitte personali picchiando il prossimo, siamo ancora in una società lontana dalla civiltà”.

Lilli Gruber, intervistando Nicola Gratteri, negli studi de La7, durante la trasmissione Otto e Mezzo del 10 settembre scorso, ha lanciato l’assist sintetizzando: “Liliana Segre dice che siamo alle prese con un problema di mentalità fascista”, pronto l’Oracolo: “Mentalità fascista? Direi mentalità mafiosa, nel senso che quei ragazzi hanno avuto atteggiamento mafioso: controllo del territorio. Chiunque fosse stato lì lo avrebbero ucciso: è un modo di essere di quelle persone, questa è la concausa di mancanza di istruzione e cultura di gente allenata alla violenza”.

Ignorando gli atti del procedimento e non potendo vantare titoli curriculari che lo autorizzino a esprimere giudizi in merito, Dio liberi l’Architetto di Begrass dall’almanaccare sulla responsabilità dei presunti aggressori di Colleferro, ma nel breve dialogo, estrapolato da un più articolato contesto, fra la giornalista italiana più engagée e il magistrato (non “giudice”, per favore! Non “giudice!) che tutto il mondo c’invidia, egli è certo di aver colto il riflesso delle “logiche d’autore”, che rendono di cogente attualità la proposizione con cui, più di due secoli orsono, Cesare Beccaria introduceva il celebre saggio Dei delitti e delle pene (Livorno, 1764):
Apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pur sono o debbono esser patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo strumento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita o passeggiera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero”.

Impossibile non notare come al fondo della contrapposizione tra “mentalità fascista” e “mentalità mafiosa”, evocata more solito dal dottor Gratteri, ossessionato dal tema in quanto, lo si dica una volta per tutte chiaramente, volano di una sempre maggiore e incontrollata accumulazione di potere, s’intraveda un inequivocabile riferimento al “diritto penale del nemico” o “diritto penale d’autore”, formule equivalenti, evocanti il fatto che ciò che è punibile non è il reato ma il reo e, nello specifico, per “quello che è” e non per “quello che fa”; in contrasto con un sistema costituzionale improntato sul diritto penale del fatto e della colpevolezza.

In tale ottica reazionaria ed evidentemente deformata, il leit motiv è dato dall’appartenenza del “nemico” ad un gruppo indentitario, secondo il modello penale nazista del Tätertyp, cioè “tipo normativo di autore”, in cui il presupposto della colpevolezza è che l’oggetto del rimprovero consiste nell’aver informato la propria vita al crimine, nell’essere piuttosto che nel commettere, mentre il fatto tipico costituisce null’altro che il sintomo di tale personalità. In forza di questa logica, dal punto di vista operativo, si concepiscono appositi piani di sicurezza della società contro i “delinquenti a prescindere”, fondati su congegni normativi che guardano al futuro, per neutralizzare pericoli, e non al passato, per riaffermare la vigenza della norma violata.

Ed è su questa scia che si promuovono l’anticipazione della criminalizzazione a condotte lontane dalla lesione o messa in pericolo di un bene; l’imposizione di pene draconiane al di là dell’idea della proporzionalità; la riduzione, se non l’eliminazione, dei diritti dell’imputato, come la presunzione d’innocenza; la specialità dell’esecuzione, scontata in stabilimenti determinati, scollegata dalla gravità del fatto, estranea al fine della rieducazione ed estremamente afflittiva. Insomma, si fanno prevalere gli aspetti della pericolosità, della prevenzione e dello stigma, rispetto alla colpevolezza e alla retribuzione, mettendosi in conto il sacrificio degli innocenti in nome della sicurezza. Maurizio Belpietro docet. L’illustre giornalista, garantista a corrente alternata, nel corso della puntata di Otto e mezzo, ha ritenuto si possano giustificare con simile argomento le clamorose débâcles di quasi tutte le ecatombali “operazioni” del dottor Gratteri.

Mentre scorrevano le immagini del duetto Gruber-Gratteri, e quest’ultimo pontificava: “Le riforme che ho io in testa non si fanno, nemmeno con questo governo … il livello di contrasto alle mafie sarà sempre insufficiente finché non faremo quelle leggi che renderanno delinquere non più conveniente”, alla memoria dell’anziano Architetto di Begras è riaffiorato un altro passo del Beccaria.
Particolarmente calzante.
Il nonno di Alessandro Manzoni, convinto che “La credibilità di un testimonio diviene tanto sensibilmente minore, quanto più cresce l’atrocità di un delitto, o l’inverisimiglianza delle circostanze”, non può fare a meno di annotare: “Presso i criminalisti la credibilità di un testimonio diventa tanto maggiore, quanto più il delitto è atroce. Ecco il ferreo assioma dettato dalla più crudele imbecillità — In atrocissimis leviores coniecturae sufficiunt, et licet iudici iura transgredi” che tradotto “in volgare” suona: “Negli atrocissimi delitti (cioè nei meno probabili) le più leggiere congetture bastano, ed è lecito al giudice di oltrepassare il diritto”.

Quindi, spiega: “I pratici assurdi della legislazione sono sovente prodotti dal timore, sorgente principale delle contraddizioni umane. I legislatori (tali sono i giureconsulti autorizzati dalla sorte a decidere di tutto, e a divenire, di scrittori interessati e venali, arbitri e legislatori delle fortune degli uomini) impauriti per la condanna di qualche innocente, caricarono la giurisprudenza di soverchie formalità ed eccezioni, la esatta osservanza delle quali farebbe sedere l’anarchia impunita sul trono della giustizia: impauriti per alcuni delitti atroci e difficili a provare, si credettero in necessità di sormontare le medesime formalità da essi stabilite; e così ora con dispotica impazienza, ora con donnesca trepidazione, trasformarono i gravi giudizi in una specie di gioco, in cui l’azzardo ed il raggiro fanno la principale figura”.