“Io, pentito di ‘ndrangheta: ma lo Stato mi toglie mia figlia”. Stasera a Speciale Tg1 “Strappi”

“Io, pentito di ’ndrangheta: ma lo Stato mi toglie mia figlia”
Di ALESSANDRO GAETA*-
 SPECIALE TG1 “STRAPPI” IN ONDA STASERA ORE 23,40
Le mamme sono la culla della ’ndrangheta, perché proiettano i propri figli verso una mentalità da ’ndranghetista”. È dal 18 giugno 2018 che Emanuele Mancuso, collaboratore di giustizia e rampollo di una delle più potenti famiglie di ’ndrangheta, esprime questo concetto. Già dal suo primo verbale, firmato una settimana prima della nascita della figlia Helen era chiaro il suo intento, maturato dopo una profonda revisione critica del suo passato: “Ricordo di aver detto che gli ’ndranghetisti hanno rovinato la Calabria e stanno rovinando l’Italia. Collaboro per poter dare a mia figlia un futuro diverso, lontano da quel contesto”. Un impegno forte che da parte dello Stato non è stato onorato. Mentre Mancuso, tra interrogatori e deposizioni in tribunale che avvengono di continuo, lavora a tempo pieno per la Giustizia, la figlia Helen vive tuttora con la madre Nensy, che a tagliare i ponti con il suo passato non ci pensa affatto. Una lunga serie di ostacoli ha impedito la costruzione di un autentico rapporto genitoriale tra padre e figlia. Eppure questo giovane uomo e di riflesso sua figlia, sono finiti al centro di un micidiale meccanismo ricattatorio messo in piedi dalla famiglia naturale e dalla famiglia criminale che nella ’ndrangheta molto spesso si sovrappongono.
Tutto inizia poche ore dopo la firma del primo verbale, grazie alle soffiate della polizia penitenziaria: “Non parlare con zio Nicola” (Gratteri, ndr) gli ringhia in carcere il fratello Salvatore. La notizia dell’avvio della collaborazione da parte del rampollo, predestinato a diventare uno dei capi della cosca, scuote dalle fondamenta la consorteria mafiosa. Già a luglio alcuni affiliati al clan si compiacciono perché Nensy Chimirri, la madre della piccola Helen, dice a Emanuele: “Se tu ti penti te la puoi dimenticare la bambina”. Da quel momento lo Stato inizia a perdere colpi fino al paradosso che alla madre viene consentito di vivere con la figlia nella località protetta riservata ai familiari del collaboratore di giustizia. Una situazione che permane tuttora, tanto da far pensare che nei ranghi dello Stato ci sia chi parteggia per la mamma, rimasta fedele ai valori della ’ndrangheta, anziché al padre che da quattro anni è collaboratore di giustizia con la Procura di Catanzaro. Mancuso la spiega così: “Una famiglia come la mia, che non ha mai avuto un collaboratore e adesso ne ha uno consanguineo, è un messaggio sociale devastante”. In questi quattro anni e quattro mesi le pressioni non si sono mai fermate mentre si sono verificati diversi incidenti di percorso che in più di un’occasione lo hanno portato sul punto di stracciare il contratto di collaborazione: “Quando la ’ndrangheta e la massoneria sono troppo forti…”. Emanuele Mancuso, che per il momento resiste, è pronto nel prossimo interrogatorio fissato per il 2 novembre a mettere, nero su bianco, tutti gli elementi che gli fanno intravedere, dietro ogni ostacolo, la lunga mano della sua famiglia. Commenta il procuratore Gratteri: “Non dare risposte a chi affida la sua vita e quella dei suoi familiari allo Stato è un fallimento per tutti noi, molto grave perché impedisce a chi sta pensando di collaborare di fare il salto”.
* giornalista del Tg1