Italia sì Italia no. Lo scontro con il Colle: o resta, o si va alle urne

(DI FABRIZIO D’ESPOSITO – Il Fatto Quotidiano) – “Chiedete a Mattarella”, aveva detto l’altro giorno Mario Draghi a proposito di un’eventuale crisi. “Chiedete a Draghi, decide lui”, il sentimento autentico raccolto alle nove di ieri sera al Quirinale.

Il Quattordici Luglio dei Migliori si è consumato nella navetta che il premier ha fatto tra Palazzo Chigi e il Colle per ben due volte. La prima intorno alle quindici, subito dopo il fatale voto di fiducia sul dl Aiuti al Senato. È stato in quel momento che Sergio Mattarella ha realizzato la determinazione di SuperMario ad andarsene. Ma la pazienza maieutica dell’arbitro bis è senza confini, si sa. E così, finito l’incontro, dal Quirinale è trapelato che Draghi avrebbe riflettuto per almeno due ore. Fino al Consiglio dei ministri delle diciotto e quindici. Nulla da fare, però. Draghi non ci ha ripensato ed ecco che alle sette di sera era di nuovo al Colle. Stavolta per le dimissioni formali.

Mattarella, secondo la prassi, come riferiscono da lassù, non ha potuto fare altro che respingerle e invitare il premier ad andare in Parlamento. Mercoledì venti. Dal Quirinale smentiscono una durezza nel confronto tra capo dello Stato e presidente del Consiglio. Ma nei fatti la divergenza è evidente. Il Grande Freddo tra Mattarella e Draghi, nonostante il caldo africano. È l’ossimoro climatico-politico di questa crisi (annunciata) dell’unità nazionale battezzata diciassette mesi fa, il 13 febbraio del 2021. Il presidente della Repubblica avrebbe risolto tutto con un rinvio alle Camere e relativo nuovo voto di fiducia. Non è stato possibile dinanzi alla fermezza draghiana.

Ergo, l’esito della giornata di mercoledì prossimo è tutto nelle mani del premier dimissionario. Delle due l’una, fanno sapere dal Colle. O Draghi fa le sue comunicazioni al Parlamento e torna di nuovo al Colle per confermare la sua scelta di andarsene. Oppure va avanti e chiede un rinnovato impegno ai partiti, con un voto di fiducia.

Sarà solo lui a decidere cosa fare.

Sullo sfondo, almeno nei ragionamenti di queste ore al Quirinale, ci sono solamente le urne nella prima domenica utile di ottobre, il 2. Il voto politico in autunno, un inedito nella storia repubblicana dell’Italia. Mai successo. Solo un’arma utile per fare pressione sullo stesso premier? Probabilmente no. Il capo dello Stato è consapevole che senza Draghi, la guerriglia partitica finirebbe per travolgere qualunque altra figura in un clima perenne da campagna elettorale. Eppoi la legislatura è in dirittura d’arrivo.

Anche per questo, mercoledì non è previsto alcun calendario per le consultazioni in caso di dimissioni confermate. Piuttosto l’annuncio dello scioglimento e l’indicazione della data.

In ogni caso le residue speranze di Mattarella di “salvare” questo governo sono affidate al fattore tempo. Da oggi fino al 20 luglio ci sono cinque giorni e il partito del presidente, cioè il Pd, si è messo intesta alla processione per convincere il Migliore. A condurla Enrico Letta ma anche Dario Franceschini, con l’obiettivo di far andare a Canossa i Cinque Stelle contiani e pure la Lega di Matteo Salvini. Al Colle fanno notare che nell’ultima conferenza stampa di Draghi è stato chiaro il riferimento agli “sfracelli” promessi dal Capitano a Pontida.

Cinque giorni, dunque, per recitare ossessivamente una gigantesca supplica mariana (nel senso di Mario), confidare in un miracolo e concludere la legislatura nella primavera del prossimo anno. Complicato e difficile. Ma non impossibile.