La deriva di Cosenza nelle mani del sindaco “vavuso” (di Pasquale Rossi)

Foto di Ercole Scorza

di Pasquale Rossi

L’altra sera, su Rai2, è andato in onda un servizio sul centro storico di Cosenza per il quale alcune associazioni cittadine hanno menato gran vanto, fino a quando non è intervenuto il sindaco, sulla loro pagina FB, a ridurli a più miti consigli.

Il servizio era impreciso e lacunoso perché, tanto per fare alcuni esempi, i palazzi in via Gaeta, via Bombini e Corso Telesio non sono crollati, come affermato nel servizio, ma sono stati demoliti, in violazione di molte leggi, dall’Amministrazione comunale.

Nel servizio televisivo viene inquadrato più volte il Castello senza far riferimento alcuno all’inaudito restauro effettuato dall’attuale Amministrazione: un inutile ed orrendo ascensore al centro del monumento, infissi in alluminio anodizzato, putrelle e staffe ancorate nei muri antichi. Nessun riferimento nemmeno riguardo all’improprio utilizzo del monumento come sede di feste private, come quella, già ampiamente documentata, del rum.

Non si fa cenno all’incredibile costruzione di Piazzetta Toscano che versava in condizioni talmente disastrose da essere sequestrata dalla magistratura. Via Santa Lucia viene inquadrata di sfuggita senza che si faccia cenno alle ulteriori demolizioni effettuate –stigmatizzate, come le altre, in una interrogazione parlamentare di Sinistra Italiana- di altri edifici. Le associazioni interpellate non accennano nemmeno che questi ultimi 6 (sei!) anni di Amministrazione sono stati quelli nei quali non solo il Comune non ha effettuato alcuna manutenzione, ma ha, addirittura, abbattuto diversi palazzi storici perché preferisce spendere soldi per Piazza Fera e le sue rugginose statue, per il ponte di Calatrava, per le luminarie, per il volgare lungofiume boulevard, ma soprattutto per la statua equestre (?) ed il Museo di Alarico.

Uno storytelling metastorico, quello di Alarico, che mescola i fatti storici con la leggenda al punto da far scomparire la linea di demarcazione fra la cultura alta e la cultura popolare, al punto che non si riesce più distinguere il vero dal falso, l’originale dal multiplo.

La classe dirigente cosentina, è vero, si era dimostrata, sin a partire dal ‘500 e fino al ‘900, interessata soprattutto alla propria pomposa e inconcludente auto-riproduzione, ma, almeno, era ancora legata ad una tradizione alta di studi classici. Quella contemporanea è, invece, una classe dirigente incolta, dai limitati orizzonti culturali piccolo-borghesi o plebei che -invece di dare alla città una memoria collettiva condivisibile e condivisa legittimata da studi e da consenso sociale non solo incolto e plebeo- si è autorappresentata celebrandosi in modo, a dir poco, esagerato vantandosi del proprio amore per la bellezza, per la cultura, per le arti e per le opere architettoniche, mentre rade al suolo interi quartieri di quello che dovrebbe essere il centro propulsivo della sua identità: la Cosenza antica.

A conferma di questa risibile auto-rappresentazione vengono il gran vanto (“vaviamento”) menato per il restauro (distruttivo) del Castello e l’uso (volgare e improprio) dello stesso, per il cosiddetto MAB costituito da multipli di statue di grandi (e meno grandi) artisti, per la cosiddetta Piazza S. Teresa che altro non è che la brutta pavimentazione di uno slargo lasciato libero dalla speculazione edilizia degli anni ’60 e ’70, per la colata di cemento in Piazza Fera (in nessuna città dell’Occidente si progettano parcheggi nel centro della città da almeno trent’anni) “abbellita” da ferruginosi gigantoni di un qualche “grande artista” del circondario.

Sono convinto che l’akmé del “vaviamento” sarà raggiunta, a breve, con la posa definitiva del ponte di Calatrava, già pensato da Giacomo Mancini che, anche lui cosentino, non era, dobbiamo concludere, immune alla“vavusaggine”.
La progettazione e la realizzazione di questo ponte ci pongono alcune domande di carattere urbanistico-economico e altre di carattere antropologico. Le domande di carattere urbanistico ed economico sono: a cosa serve il ponte se non a collegare il nulla con il nulla? Se lo avessero costruito un po’ più a nord non si sarebbe potuto collegare, almeno, alla superstrada per la Sila?

Cosenza, Ponte di Calatrava (rendering)

Ci sono, come spesso accade, appetiti speculativi interessati alla cementificazione di quelle aree ancora non del tutto scempiate dall’urbanizzazione selvaggia di questi ultimi due decenni? Non si sarebbe potuto lasciare che l’antico alveo del Crati, almeno verso est, rimanesse parzialmente non urbanizzato trasformandolo in un parco fluviale, ripristinando le naturali golene e ripiantando le essenze autoctone?

La bellissima foto di Ercole Scorza (quella di copertina) mostra quanto sia già troppo antropizzato e cementificato l’alveo del fiume. Quanto costerà, esattamente, il ponte? Quanto è stato pagato l’architetto catalano? Il progetto è stato affidato direttamente senza gara e, se sì, è stato mostrato all’Amministrazione prima di esser completato o lo si è comprato a scatola chiusa?
Una volta consegnato il progetto, il competentissimo sindaco architetto si è accorto che è praticamente identico a quelli di Siviglia, Valencia, Atene, Gerusalemme etc. etc.?

Quando Occhiuto ha voluto rifinanziare la costruzione del ponte sapeva già che i ponti progettati dall’architetto Calatrava non avevano avuto molta fortuna: con la pioggia e il gelo si scivola sul ponte della Costituzione di Venezia, ma anche sulla passerella Zubi-zuri di Bilbao (in dieci anni si stima si siano spesi 250mila euro per risistemare la pavimentazione in vetro), a Gerusalemme residenti e ambientalisti si sono scatenati contro i ritardi (sei anni dopo il previsto), e l’eccessivo costo del ponte che ammonta a ben 55 milioni!. Sapeva anche che Calatrava, insieme ad alcuni dirigenti comunali, è stato citato, per il suo ponte di Venezia, in giudizio per danno erariale dinanzi alla Corte dei Conti veneta nel 2012.

Implacabile il giudizio dell’accusa, dottor Carmine Scarano.
“Dalla documentazione agli atti emerge un quadro caratterizzato da macroscopica approssimazione e diffusa incapacità sfociate in un imbarazzante, quanto stupefacente, insieme di errori riscontrabili tanto nelle fasi di progettazione ed esecuzione, quanto nella redazione del bando di gara. Un’incapacità tecnica e una leggerezza nell’uso del denaro pubblico che così tanto sorprendono se raffrontate all’esperienza, competenza e capacità che hanno caratterizzato, in passato, la costruzione degli altri storici ponti sul Canal Grande”.
Vittorio Sgarbi e Mario Occhiuto

L’ex assessore occhiutiano, Sgarbi, ebbe ad esprimersi così: “Cacciari è stato un modesto sindaco di Venezia che ha fatto la cosa più brutta che c’è in quella città: quel cesso del ponte di Calatrava”.
Perché, dunque, Occhiuto ha voluto, a tutti i costi (è il caso di dirlo), costruirlo?

Passiamo, ora, alle domande socio-antropologiche riguardo all’oggetto del nostro discorso: perché fare un ponte che, in fondo, non serve davvero? Perché, soprattutto, farlo fare ad una conclamata Archistar? Perché, se era un progetto congelato, rifinanziarlo dopo più di un decennio ? Perché spendere tutti questi soldi -ai tempi di Mancini il costo della sola struttura era di 14 mln. ora siamo a più di 55 mln. di euro tutto compreso- per un ponte che collega il nulla con il nulla e del quale nessuno sentiva il bisogno se non una classe dirigente che aveva la precisa volontà di marchiare, indelebilmente, il territorio cittadino con un “segno architettonico” da megalomani (“vavusi”)?

Il sindaco populista, conoscendo molto bene l’animo della folla della città, è andato incontro all’essenza dei suoi concittadini, ha assecondato la naturale “vavusaggine” dei cosentini proponendo loro – ed in parte realizzando malissimo e con gusto dozzinale- idee, progetti, illusioni, sogni e miraggi dei quali avrebbero potuto “vaviarsi”. Ed è tanto vero che le demolizioni dei palazzi storici di Corso Telesio non hanno avuto, invece, alcun oppositore, se non fosse stato per pochissimi e per Sinistra Italiana che ha presentato una interrogazione al ministro Franceschini, per competenza, ed ai ministri Orlando e Minniti, per conoscenza.

Perché le opposizioni politiche (partiti) e sociali (sindacati), le associazioni (Fai, Unesco, Italia Nostra, associazioni cittadine, ambientalisti etc.), gli ordini degli ingegneri, dei geologi, degli architetti e urbanisti e, in generale, i cosentini abbiano taciuto di fronte a questa “operazione Alarico”?

Tutti questi fenomeni dell’animo collettivo, queste manifestazioni antropologiche delle folle hanno uno stretto rapporto con la costruzione e la narrazione dell’identità collettiva ed individuale. Un’identità cittadina, sia essa ricostruita o inventata, per conquistare legittimità e consenso sociale ha bisogno di contenuti condivisi. Un’identità cittadina, per essere vitale, ha necessità che i suoi sistemi rappresentativi convergano con l’universo culturale dei gruppi sociali, politici e culturali coinvolti nei processi in atto nella società e Occhiuto, bisogna arrendersi all’evidenza, è riuscito a farli convergere.
Un sindaco “vavuso” che culturalmente, sociologicamente ed antropologicamente rappresenta il 60% dei cosentini che, orgogliosamente e legittimamente, da lui si sentono rappresentati. Amen.