La legge Cartabia trasforma i giornalisti in “cani da riporto”

(DI ANTONIO MASSARI – ilfattoquotidiano.it) 

“Ce lo chiede l’Unione Europea”. Ma cosa ci ha chiesto l’Ue? Che “fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole”. Giusto. D’altronde l’avevano già sancito i padri costituenti con una pietra miliare, l’articolo 27 della nostra Carta, che dispone: “[…] L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. […]”. Certo, di storture ne abbiamo avute, e come in tutti gli ambiti della nostra vita sociale la Costituzione è stata spesso disattesa. E certo, la richiesta dell’Unione europea meritava di essere accolta, se non fosse che – nei fatti – è stata dirottata verso fini ulteriori: implementare un “bavaglio” all’informazione. E non mi pare fosse questa la richiesta dell’Ue. Vediamo quindi – prima di addentrarci nei commenti di alcuni procuratori – come il governo Draghi e il ministro Cartabia hanno reso operative le richieste dell’Unione Europea con la legge promulgata l’8 novembre scorso.

La riforma incide su una disposizione del 2006, varata dal ministro di giustizia Clemente Mastella durante il governo guidato da Romano Prodi che, già all’epoca, ridimensionò notevolmente i rapporti tra i giornalisti e i magistrati. Ai pm, da quel momento, fu vietato interloquire con i cronisti: l’unico interlocutore legittimato a parlare con i cronisti divenne il procuratore capo.

Dall’archivio dell’Adnkronos riprendiamo questa dichiarazione: “No alla cronaca giudiziaria filtrata dai procuratori capo. No alle Procure blindate. No al divieto dei magistrati di parlare con i giornalisti”. Sono le tre “parole d’ordine” lanciate dell’Unci, l’Unione nazionale cronisti italiani, che in una nota “denuncia un nuovo attentato alla libertà di stampa e al diritto dei cittadini di essere informati in modo completo e corretto”. Oggi – nel sostanziale silenzio assenso della Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) e dell’Ordine dei giornalisti che non si sono neanche presentati alle audizioni in commissione Giustizia – la situazione è ulteriormente peggiorata. Un minimo segnale di risveglio lo offre Carlo Bartoli, nominato presidente dell’Ordine dei giornalisti il primo dicembre scorso, che al Fatto Quotidiano, intervistato da Valeria Pacelli, ha dichiarato: “E’ una norma spropositata che metterà a rischio il diritto di cronaca”. Vediamo quindi la norma. In grassetto troviamo le ulteriori modifiche al testo approvato nel 2006.

“Il procuratore della Repubblica mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato dell’ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa. La determinazione di procedere a conferenza stampa è assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano”. Analizziamo il testo. Qual è il nesso tra l’obbligo – già sancito dalla Costituzione – di non rappresentare un indagato come un colpevole e l’obbligo, per il procuratore, di comunicare “esclusivamente” con un comunicato stampa? A mio avviso nessuno. L’unico vero intento, qui, è limitare ulteriormente la possibilità per i cronisti di porre domande. Se nell’accezione anglosassone il giornalismo rappresenta il “cane da guardia” che sorveglia il potere, in Italia, per il ministro Cartabia e il governo Draghi, i cronisti dovrebbero essere al massimo i “cani da riporto”, nel senso che riportano in redazione i comunicati delle procure e senza avere la possibilità di rivolgere alcuna domanda. E tutto questo nulla c’entra con la presunzione di innocenza dell’indagato. Si dirà: sono però previste le conferenze stampa nelle quali – ci si augura – è possibile porre delle domande. Mah. Occhio all’avverbio “esclusivamente” e alla frase “nei casi di particolare rilevanza pubblica”. In sostanza questo potrà accadere solo “nei casi di particolare rilevanza pubblica”: chi stabilisce i criteri che rendono un’inchiesta “di particolare rilevanza pubblica” oppure no? Se riguarda un immigrato irregolare ha più o meno rilevanza pubblica rispetto a un’eventuale inchiesta sul premier in carica? E perché deve stabilirlo una procura piuttosto che, come sarebbe logico, un giornalista? E ancora una volta: cosa c’entra tutto questo con la presunzione d’innocenza?

Proseguiamo. Il comma due dell’articolo in questione non subisce modifiche: “Ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all’ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento”. La norma puntava, nel 2006, a mitigare il protagonismo dei pm. Ma se sfogliate i giornali, cercate sul web, ascoltate la radio o guardate la tv, vi accorgerete che quasi mai l’inchiesta viene associata genericamente a una procura: troverete quasi sempre il nome dei magistrati titolari del fascicolo. Quindi nei fatti è disapplicata e il motivo è semplice: non v’è nulla di male nel citare il magistrato titolare del fascicolo e, d’altronde, non è sufficiente la citazione di un nome a inoculare il virus del protagonismo in un pm. E infatti: a fronte di decine di inchieste riportate dai media – e quindi decine di pm menzionati – non troviamo altrettanti malati di protagonismo. L’argomento andrebbe risolto nelle sedi opportune, probabilmente con chi maneggia professionalmente le cognizioni di psicologia, non certo impedendo a un cronista di menzionare il magistrato che s’è occupato di un’indagine. A questa inutile, ipocrita e disattesa norma del 2006, oggi se ne affianca un’altra prevista dal comma 2bis: “La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico”. Il riferimento – immaginiamo – è a quei momenti dell’indagine che impongono ai pm la cosiddetta discovery: la rivelazione agli stessi indagati che c’è un’inchiesta che li riguarda, ovvero arresti e perquisizioni, che avvengono depositando agli stessi indagati le ordinanze di misure cautelari e i decreti di perquisizione e di sequestro. Documenti necessari, per un cronista, se vuole comprendere e spiegare il reale contenuto di un’indagine. Anche in questo caso la norma cita le “altre specifiche ragioni di interesse pubblico” che, ancora una volta, ricadono nella più ampia discrezionalità del procuratore.

Ora, un fatto è certo: la norma non impedirà ai cronisti di accedere a questi documenti. Molto più semplicemente: renderà ancora più complicato il percorso per entrarne in possesso. Fino a oggi i documenti circolavano in un regime di “contrabbando”. La segretezza della fonte – che sia un pm, un procuratore, un avvocato, un ufficiale di polizia giudiziaria – va sempre tutelata. Ma ora è necessario che la fonte e il cronista siano davvero molto “affiatati” affinché il documento possa circolare. Un affiatamento che mal si sposa con l’indipendenza del cronista che, ancor più di prima, potrà essere selezionato dalla fonte tra quelli che gli creano meno problemi. E siccome si tratta di documenti che rispecchiano le tesi dell’accusa, va da sé che un cronista incline a leggere gli atti con un occhio critico, sarà penalizzato rispetto al collega che sposa acriticamente le tesi dell’accusa: questo giova forse alla presunzione d’innocenza? Direi senza dubbio che c’è una sola risposta: no. Giova piuttosto a chi mira a controllare l’informazione.

E ancora: “Le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”. Ora, fatto salvo il caso di un giornalista incompetente che confonde un indagato con un condannato in via definitiva, o di un giornalista che dà spazio soltanto all’accusa e non contempla la difesa dell’indagato, il concetto è già cristallizato nell’articolo 27 secondo comma della Costituzione: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.

Passiamo al comma 3 che resta intatto: “E’ fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio”. Si aggiunge però il nuovo comma 3 bis: ” […]il procuratore della Repubblica può autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria a fornire, tramite comunicati ufficiali oppure tramite conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato. L’autorizzazione è rilasciata con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano. (…)”. E poi il comma 3 ter: “Nei comunicati e nelle conferenze stampa di cui ai commi 1 e 3-bis è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti
denominazioni lesive della presunzione di innocenza”.

Riepiloghiamo: in sostanza i comunicati stampa può diramarli, previa autorizzazione, anche la polizia giudiziaria. Ma siamo sempre dinanzi a comunicati stampa a senso unico, senza possibilità di fare domande e chiedere chiarimenti. C’è poi il passaggio sulle inchieste che non avranno più appellativi: in altre parole, oggi “mani pulite” non avrebbe alcun nome, ma soltanto il numero del fascicolo. Ipotizziamo che la procura nel comunicato, o nella conferenza stampa, lo citi con il un numero immaginario: “1234 del 2021”. Chi può impedire a un giornalista particolarmente creativo di battezzare il fascicolo “1234 del 2021” con il nome di Mani Pulite? Altra norma inutile: siamo quindi al punto di partenza. Infine: “Il procuratore della Repubblica ha l’obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l’esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell’azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato al comma 3”. In sostanza, se un sostituto in procura viola uno di questi precetti, finisce dritto al consiglio disciplinare.

Lette le norme, veniamo al punto: questa riforma – ad avviso di chi vi scrive – potrà soltanto peggiorare la situazione. I motivi sono semplici. Se venisse applicata rigorosamente, il cronista si trasformerà nel postino della procura, non farà domande agli inquirenti e quindi non riceverà risposta. Quale controllo potrà operare? Quali critiche – e su quali basi – potrà muovere a un’inchiesta? Nessuna. È questa l’informazione che vogliamo? Per quello che mi riguarda, no. Se invece vorrà ottenere notizie, dovrà farlo di “contrabbando”, con il rischio di abbeverarsi a “fonti” che da un lato gli tenderanno la mano, dall’altro gli faranno pesare il “trattamento di favore”, dall’altro ancora gli facciano comprendere che, se risulterà critico – cioè autonomo e indipendente -, il trattamento di favore cesserà. È questo il rapporto tra fonti e cronisti che vogliamo? Per quello che mi riguarda, no. E né da cronista né da lettore. Perché questo sistema non incrementa l’autonomia di pensiero ma, al contrario, la riduce drasticamente. Ma soprattutto: che nesso hanno queste disposizioni con il principio della presunzione d’innocenza? Sarebbe preferibile, piuttosto, mettere i cronisti nelle condizioni di non dover elemosinare gli atti dai quali, poi, dovranno trarre le informazioni che pubblicheranno. Non metterli nelle condizioni di sentirsi in debito verso la fonte che li ha aiutati a ottenere questi documenti, ripagandola magari con una critica in meno, perché timorosi di restare la prossima volta a bocca asciutta. Oppure nella condizione di non chiedere nulla perché hanno voglia di restare liberi anche di fronte alle loro potenziali fonti. Questa sarebbe una vera riforma e davvero andrebbe nella direzione di vedere applicata la presunzione di innocenza: libertà di accesso, per i cronisti, agli atti pubblici. Consentirebbe a tutti di studiare i documenti e trarre le proprie conclusioni. Consentirebbe a chiunque di criticare, quando è necessario, anche la magistratura. E senza timore di restare fuori dal circuito delle informazioni. Il punto è che un’informazione libera e indipendente è sgradita a qualsiasi potere: che sia il governo, la politica e la stessa magistratura. E questa riforma lo dimostra in modo ineccepibile.