La vera storia del Generale Custer

Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

Potrà starvi simpatico o meno, potrà apparirvi arrogante e smargiasso, ma George Armstrong Custer non era uno sprovveduto. Il giorno della fatidica battaglia lungo il fiume Little Bighorn, il 25 giugno del 1876, Pahuska, Lunghi Capelli – così lo chiamavano usualmente i nativi – aveva un considerevole numero di battaglie alle spalle, che gli avevano conferito una certa notorietà.

Sebbene tutti lo chiamassero Generale, Custer era in realtà soltanto un tenente colonnello, cui venne dato un brevet, una disposizione temporanea che lo elevava a tale grado. Ai tempi della Guerra di Secessione Americana, si distinse per una sua innegabile propensione agli attacchi frontali e per una certa spregiudicatezza nell’affrontare il pericolo, anche a costo di ingenti perdite umane. Nel corso di una successiva spedizione militare contro i Cheyenne, poi, venne addirittura sottoposto a corte marziale per l’eccessivo rigore con cui trattava i suoi uomini: la disciplina cui li sottoponeva era talmente rigorosa e spietata da sconfinare nella crudeltà.
Insomma, Custer non era certo un fine stratega né un genio militare, ma, pur essendo ancora giovane, si era costruito una fama di ardito e sprezzante del pericolo, e fu proprio per questo che nel 1875 gli venne affidata una spedizione per accertare la presenza dell’oro sulle Black Hills.
Le Colline Nere, o Paha Sapa, in lingua Lakota, sono un territorio ritenuto sacro dai nativi, che si estende tra il Sud Dakota e il Wyoming. In un primo momento, avendolo giudicato privo di valore, il Governo degli Stati Uniti lo cedette per sempre ai nativi con il Trattato di Fort Laramie del 1868.
Quattro anni dopo, tuttavia, alcuni minatori violarono il trattato e trovarono l’oro su quelle colline, determinando così un insediamento sempre più consistente nel territorio indiano, in piena violazione del trattato stipulato. La spedizione di Custer confermò la presenza dell’oro e tracciò la strada per un’ulteriore ondata di cercatori, quella che i nativi definirono “la pista dei ladri”. Sebbene il “Grande Padre” Ulysses Grant vietasse formalmente ai coloni di insediarsi sulle Black Hills, di fatto il Governo non attuò contromisure di alcun tipo per arrestare questo esodo, e la situazione non tardò a degenerare. Falliti i primi tentativi di “ricomprare” le Black Hills, fu la guerra.
contro le Giacche Blu, per difendere il suolo sacro, si schierò una coalizione di varie tribù di Nativi delle Grandi Pianure: gli Hunkpapa di Toro Seduto, gli Oglala Lakota di Cavallo Pazzo e Nuvola Rossa, i Cheyenne del Capo Due Lune, i Brulé di Coda Chiazzata, e poi ancora i Sans Arcs, gli Assiniboin, gli Yankton e i Piedi neri, per un totale stimato di circa 2000 guerrieri.Il giorno della battaglia di Little Bighorn, Lunghi Capelli ha avvistato il grande accampamento in cui si trovano gli indiani e, com’è nel suo stile, conta di conquistarlo con un colpo di mano, spezzando così la resistenza dei nativi e conquistando le Black Hills in un colpo solo.
Dopo aver ordinato al Maggiore Marcus Reno di attaccare un grosso villaggio indiano annidato nella valle del Little Big Horn, Custer nota 50 “ostili” sul suo fianco destro e decide di inseguirli. Quando questi si disperdono, Custer continua ad avanzare, puntando verso nord. A questo punto, mentre sta cavalcando, formula tra sé e sé un nuovo piano di battaglia, senza dire niente agli altri ufficiali. Un errore che gli costerà caro.

Si mette così alla ricerca di un guado per attraversare il fiume, mentre il suo battaglione continua a galoppare verso nord, lungo le aride sponde del fiume Little Bighorn.
Il reggimento si infila in una larga gola ma, subito dopo l’ingresso nella strettoia, alle spalle della truppa di Custer si sentono i primi spari. È Dente di Lupo, un Cheyenne che si trovava in esplorazione con un gruppo di una cinquantina di guerrieri: ha visto che le giacche blu puntano verso il villaggio e ha deciso di aprire il fuoco.

Con gli indiani alle spalle, Custer non può impegnare l’intero comando nell’esplorazione: manda il Tenente Algernon Smith e la Compagnia E a provare il guado. Nel frattempo, Custer e le altre quattro compagnie rimangono indietro, si attestano come retroguardia sul crinale che sovrasta il fiume.

Al ritorno di Smith, Custer riceve una brutta notizia: il guado del Dry Creek (anche noto come Muskrat Creek) è troppo fangoso e pieno di pantani. C’è un pugno di guerrieri, forse soltanto quattro, che difendono questo passaggio dalla parte del villaggio e Smith ha anche notato che gli indiani, in gran parte non combattenti, si stanno disperdendo verso ovest e nordovest. La più grande preoccupazione di Custer è proprio questa, che gli abitanti del campo possano sfuggire. Ciò rende lo rende ancora più determinato a trovare un guado che lo porti dagli indiani, prima che questi riescano a disperdersi.Dente di Lupo e i suoi guerrieri continuano a bersagliare da lontano le truppe, creando scompiglio, ma Custer non è ancora veramente preoccupato. Ha preso parte a centinaia di scontri nel corso della sua movimentata carriera ai tempi della Guerra Civile, e qualcuno lo considera addirittura il miglior combattente di indiani dell’intero esercito degli Stati Uniti. Decide di lasciare tre delle sue cinque compagnie, la I, la C e la L, a contrastare gli uomini di Dente di Lupo. Nel suo piano, esse serviranno da collegamento per quando arriverà la retroguardia del Capitano Frederick Benteen.

Con le altre due compagnie, la E e la F, Custer punta a nordovest, discendendo il crinale ed entrando in una larga spianata che digrada verso il fiume. Ma, nel momento in cui si avvicinano alla riva del fiume, Custer e i suoi ricevono una grandinata di piombo da un gruppo di guerrieri sull’altra sponda, che protegge la ritirata delle donne e dei bambini.
Rispondere al fuoco da cavallo non è un’impresa semplice: i soldati della Compagnia F scendono di sella e formano una linea difensiva. Anziché seguire le regole classiche della cavalleria, che prescrivevano tre cavalli per ciascun soldato, Custer ordina più potenza di fuoco a terra e assegna a ciascun soldato otto cavalli. Si tratta di una tattica coraggiosa ma piuttosto rischiosa, che il Generale ha già sperimentato in altre occasioni.

Gli indiani notano l’assembramento di cavalli senza cavaliere e, sparando e agitando delle coperte, li fanno imbizzarrire e sparpagliare. I guerrieri li catturano velocemente, lasciando così a piedi gran parte della Truppa F. A questo punto, Custer si rende conto che l’intera operazione e il suo stesso comando sono in grave pericolo.
Mentre Custer sta tentando questo secondo attraversamento, ai guerrieri impegnati contro le truppe del Maggiore Reno giunge voce che i soldati stanno cercando di catturare le donne e i bambini. Praticamente tutti i guerrieri impegnati nel settore di Reno abbandonano lo scontro all’improvviso e si lanciano alla rinfusa verso i pendii situati all’estremità settentrionale del villaggio.

Nel frattempo, la Compagnia F si sta ritirando, ritorna indietro verso il crinale che sovrasta il fiume, dove si è riunito il resto del comando, mentre la compagnia E, che ha ancora i cavalli, la protegge con un fuoco di copertura. Con una corsa di un chilometro e mezzo, la compagnia F finalmente riguadagna la cresta. La Compagnia E smonta da cavallo a sua volta e crea una linea difensiva per coprire i compagni appiedati. Sono quasi le cinque del pomeriggio. Seguono venti minuti di sparatoria, con i quali Custer cerca disperatamente di temporeggiare fino all’arrivo della retroguardia e dei rinforzi. Suo fratello Boston gli ha detto che entrambi distano soltanto una decina di chilometri.Gli indiani, però, si fanno sempre più audaci. A mano a mano che si avvicinano, sempre più cavalli si imbizzarriscono e vengono catturati. La compagnia C tenta una carica, per respingere una parte degli indiani sopraggiunti, ma la scaramuccia ha un esito tragico: i soldati vengono tagliati fuori e circondati. Ne muoiono soltanto tre, ma tra le Giacche Blu si scatena il panico. I soldati si raggruppano e cominciano a correre, rompendo così la linea difensiva.
Con metà dei suoi uomini senza cavalcatura, Custer si rende conto che la sua unica speranza è che il Capitano Benteen e il Maggiore Reno vengano a salvarlo. Assistendo impotente al collasso della propria guarnigione, Custer e i suoi assistenti uccidono dei cavalli, usando le carcasse per creare dei ripari sulla sommità di una collinetta. I soldati terrorizzati si mettono a correre nella sua direzione, mentre gli attacchi suicidi degli indiani si fanno sempre più frequenti ed efficaci.
La situazione, già critica, peggiora ulteriormente quando gran parte dei guerrieri impegnati contro il maggiore Reno, circa 1.500 uomini, si riversa sul campo di battaglia, arrivando da sud. Hanno disceso la scarpata, attraversato il fiume e risalito l’altra riva lungo i rigagnoli per difendere le loro famiglie.

La Compagnia E mantiene la posizione a ovest, al di sotto del poggio dove si è attestato Custer, per proteggere il fianco della truppa dai guerrieri che sopraggiungono da nordovest. Malgrado questa difesa, un gruppo di intrepidi guerrieri riesce a scavalcare la Compagnia E e a far scappare gli ultimi cavalli rimasti ai soldati.
Lo scontro a fuoco si protrae da due ore, ma raggiunge un’intensità spaventosa nel momento in cui ondate di guerrieri, a cavallo e a piedi, riescono a sopraffare i pochi soldati rimasti sulla collina con Custer e a sterminarli tutti, compreso il Generale Custer.
Sul terreno di battaglia, nel raggio di centinaia di metri, giacciono circa 190 soldati morti e feriti. I guerrieri possono ora concentrarsi su quello che rimane della Compagnia E, una ventina di soldati circondati, appiedati e a corto di munizioni. Coraggiosamente, questi superstiti corrono verso lo scontro finale: molti di loro stringono in mano i fucili scarichi per usarli come mazze. Vengono spinti verso una gola profonda, dove vengono massacrati.

L’annientamento degli uomini di George Armstrong Custer non pose fine al combattimento. I guerrieri sioux e cheyenne che si trovavano su quella che sarebbe poi diventata Custer Hill, si rivolsero immediatamente contro le posizioni del Maggiore Marcus Reno e del Capitano Frederick Benteen, attaccandoli con tutto quello che avevano a disposizione. “Le pallottole cadevano proprio come in una grandinata”, ricordava il Tenente Francis Gibson. Benteen prese il controllo e intimò ai soldati di formare una linea difensiva improvvisata a ferro di cavallo. Malgrado le severe perdite subite da Reno – 13 morti e 60 feriti – quello che rimaneva del Settimo Cavalleria riuscì a resistere agli indiani per quasi due giorni. Il 26 giugno gli Sioux e i Cheyenne si dileguarono e uno strano silenzio scese sulla Little Bighorn Valley.
Gli indiani si separarono: Toro Seduto e la sua banda si rifugiarono in Canada, mentre Cavallo Pazzo e gli altri si diressero verso la vicina contea di Rosebud, o dovunque riuscissero a trovare dei bisonti.Custer poteva vincere e fu abbandonato o sbagliò tattica e condannò a morte i suoi uomini? Sono interrogativi e dilemmi che dureranno ancora per molto.
Un secolo dopo, nel 1983 un grande incendio nel Montana centrale colpì la zona dove avvenne la battaglia. Con chilometri di prateria e di bosco bruciati venne alla luce il sito della battaglia. Con l’aiuto della scienza, antropologi e archeologi hanno studiato e analizzato per oltre vent’anni i reperti relativi alla vicenda.

Gli archeologi come veri detective sono riusciti a smontare uno dei piu’ grandi miti del west americano, con il loro lavoro e le loro scoperte sono riusciti a modificare l’immagine del reggimento di Custer: gran parte di loro erano inesperti soldati. I reperti hanno permesso di studiare a fondo anche i guerrieri indiani, ben lontani da essere avversari primitivi e privi di qualsiasi tattica militare. Erano invece bene armati e profondi conoscitori del terreno di guerra.
Sul Little Big Horn gli indiani combatterono per uccidere chi stava minacciando la loro esistenza, le loro famiglie, le loro donne e i loro bambini. La battaglia non fu una strenua resistenza, bensì una breve e devastante sconfitta.