Le regioni hanno 50 anni, ma il bilancio è magro e ognuna è un potentato locale

di Sabino Cassese

Fonte: Il Sole 24 Ore

Le regioni a statuto ordinario compiono cinquant’anni. La legge 281 sui provvedimenti finanziari per assicurare le entrate alle regioni porta la data del 16 maggio 1970 e la firma di Rumor, Preti, Colombo, Giolitti, Restivo. Due anni prima era stato scelto il sistema elettorale regionale, quello proporzionale, con la legge 17 febbraio 1968 n. 108. Un mese dopo, il 7 e 8 giugno 1970, si svolgeranno le prime elezioni per scegliere i consiglieri regionali.

Le regioni arrivano 22 anni dopo la Costituzione, che le prevedeva, e facevano parte, quindi, di quella che uno degli ispiratori della Costituzione, Massimo Severo Giannini, ha definito qualche anno dopo la “lentissima fondazione dello Stato repubblicano”. La Democrazia Cristiana, che pure le aveva volute, non ne sentiva più il bisogno, e fu il Partito Socialista che, iniziata nel 1962 l’esperienza del centrosinistra, propugnò l’attuazione delle quindici regioni a statuto ordinario (le cinque a statuto speciale già esistevano), che così vennero ad affiancarsi ai circa 8 mila comuni e alle poco meno di 100 province.

Le regioni italiane, nel 1970, non avevano tradizioni quali ispirarsi. Le definizioni geografiche, salvo pohe variazioni, seguirono le suddivisioni adoperate dopo l’unità a fini statistici da Pietro Maestri, che aveva a sua volta seguito i confini delle regioni militari dell’antica Roma. Ne vennero entità di dimensioni molto diverse. Anche ora, solo otto regioni hanno dimensioni oscillanti intorno ai 4-5 milioni di abitanti, mentre agli estremi vi sono la Lombardia con 10 milioni e la Valle d’Aosta con 125 mila abitanti.

Istituite le regioni, si dovevano trasferire ad esse compiti dello Stato e dei comuni, ed anche questo fu fatto progressivamente, in quattro tappe: 1972, 1977, 1998, 2001 (peraltro, nel 1978 fu istituito il Servizio sanitario nazionale, costituito su base comune, tanto che oggi costituisce circa tre quarti della realtà amministratvia di molte regioni). Il passaggio più importante, che comportò una modifica costituzionale, fu quello del 2001 perché fu anche abolito il commissario del governo e soppresso il controllo preventivo sulle leggi e sugli atti amministrativi regionali. La modifica, molto importante, fu confermata da un referendum al quale partecipò soltanto un terzo degli aventi diritto, con una maggioranza del 64 per cento.

Un cambiamento strutturale fu quello di poco precedente, avviato nel 1995 e completato nel 1999, consistente nella presidenzializzazione delle regioni (elezione diretta dei presidenti delle giunte regionali, oggi erroneamente chiamati governatori), una riforma che seguiva di qualche anno un analogo cambiamento introdotto nel 1993 per comuni e province, nonché la contemporanea introduzione del maggioritario nel sistema elettorale nazionale.

Dopo mezzo secolo di vita, si può esser soddisfatti dell’introduzione delle regioni? Un primo segnale è offerto dalla curva discendente della partecipazione alle elezioni regionali. Nel 1970 alle elezioni dei consigli regionali partecipò più del 90 per cento degli aventi diritto al voto. Dopo trent’anni la partecipazione era scesa di venti punti. Nelle votazioni degli anni più recenti, la partecipazione dell’elettorato oscilla, a seconda delle regioni, tra un terzo e due terzi, con una generale tendenza a poco più della metà dell’elettorato. La partecipazione elettorale nazionale è superiore e questo vuol dire che i poteri pubblici che doivevano esser più vicini alla cittadinanza (le regioni), che all’inizio dovevano esser all’origine della salvezza dello stesso Stato, sono considerati dalla cittadinanza più lontani.

In secondo luogo, l’istituzione di governi regionali aveva fatto sperare che le forze politiche si potessero riaggregare su base regionale, differenziandosi dal livello nazionale; abbandonare il rivendicazionismo proprio della vecchia esperienza degli enti locali; sperimentare nuove forme di partecipazione al potere pubblico, in senso aggregativo e cooperativo, invece che conflittuale, sul modello della Germania. Invece, nelle regioni si sono ripetuti i cleavages della politica nazionale; i presidenti si sono distinti nel competere con lo Stato centrale, come tanti shogan in concorrenza con l’imperatore; le varie conferenze miste Stato-regioni sono state deludenti (basta vedere i ricorsi alla Corte costituzionale o l’odierno battibecco presidenti regionali-presidente del consiglio).

Infine, le regioni hanno accentuato il divario Nord-Sud, diventando così fattore di disunione. Ogni regione si comporta come un potentato locale, dimenticando che l’articolo 5 della Costituzione, prima di riconoscere e promuovere le autonomie, dispone che la Repubblica è “una e indivisibile”. La cooperazione nel riequilibrio dei divari, che ci si apsettava inizialmente, non c’è stata. Le regioni si sono comportate come parti di una confederazione rissosa, non come componenti di un organismo unitario, quello che la Costituzione chiama “Repubblica”.