L’Ordine dei giornalisti contro Formigli: “Correttismo o il governo vuole la censura?”

(Giuliano Guida Bardi e Luca Telese – tpi.it) – La notizia è folle, surreale, si stenta a crederci: l’Ordine dei giornalisti avrebbe aperto un esposto contro Corrado Formigli e la sua Piazza Pulita per aver mostrato nella puntata di giovedì 2 marzo le scarpine di un bambino.

Corrado, è una notizia vera o è una fake?
“È quello che ho letto anch’io sulle agenzie. Di più non so. Ieri mi ha chiamato l’Ansa dicendomi che era stata diramata una nota del Comitato Esecutivo del Consiglio nazionale dell’ordine che chiedeva di valutare, fatto salvo il diritto di cronaca, la spettacolarizzazione di una tragedia. Il fatto contestato è che Piazza Pulita abbia mostrato, sul tavolo dello studio, la scarpina che Sara Giudice, la bravissima inviata che era stata a Cutro, tornando, aveva portato con sé. Una scarpina raccolta sulla spiaggia. Durante l’editoriale che ho fatto all’inizio della trasmissione su questa strage, è stata inquadrata per qualche secondo questa scarpina, nel momento in cui vi facevo riferimento. Tutto qui”.

Si stenta a crederlo.
“Sì, sembra una notizia dell’altro mondo. Una notizia marziana, ma questo accade in Italia nel 2023. La cosa interessante è che nella nota del Comitato Esecutivo del nostro Ordine, c’è scritto “abbiamo ricevuto numerose segnalazioni…”. Allora, la prima cosa che chiedo all’ordine è di rendere pubbliche le persone che hanno fatto queste segnalazioni. Cioè io vorrei sapere se la segnalazione è stata fatta da una madre sconvolta o da, non so, dal senatore Gasparri. La seconda cosa: nella nota si parla di “uso di spettacolarizzazione”. Ma chi decide cosa è spettacolarizzazione? Perché il giorno prima i giornali avevano in prima pagina dei biberon, delle scarpine e degli oggetti questi poveri bambini, e invece in televisione non si può mostrare una scarpa? Qual è la differenza? Chi decide?”

Si potrebbe dire che la potenza di quello che hai fatto, cioè mostrare il reperto in televisione, è veramente una potenza di racconto incommensurabile. Nessun dettaglio di Piazza Pulita è mai lasciato al caso, con la tua bella squadra di autori e giornalisti: hai fatto una scelta consapevole?
“Io credo che la televisione si nutra di immagini e si alimenti di simboli. Quando andai in Somaliland, il luogo più povero e più colpito dalla siccità del mondo, tornai con una tanichetta di una persona che stava morendo di sete, in una capanna dell’Africa. Raccolsi quella tanichetta perché era il simbolo dei popoli africani che camminano per centinaia di chilometri per cercare un rivolo d’acqua e metterlo dentro queste tanichette. Che sono il simbolo di una grande tragedia. Allo stesso modo, questa scarpetta è il simbolo di una tragedia. Quando noi facciamo televisione, ovviamente utilizziamo le immagini e lo facciamo all’interno di un contesto. Nel caso di cui stiamo parlando, il contesto non era quello di nani e ballerine. Al contrario, coerentemente, spiegava che cosa era successo a questi bambini e che cosa era successo in questa strage per assenza dello Stato”.

La scarpina era là, sul luogo dell’ecatombe. Avete solo ripreso la realtà, come si ci può risentire se un giornalista racconta la realtà?
“Ecco, vi dico di più. Sara Giudice ha preso questa scarpina, non ci ha detto niente quando era li, e quando è tornata a Roma per buttare giù il suo bellissimo reportage, me l’ha portata. Ho pensato che questa scarpa fosse, diciamo così, la prosecuzione del racconto di Sara. È stata una scelta condivisa da tutti noi, in redazione”.

A cosa pensi sia dovuto l’intervento dell’Ordine?
“Mi domando se l’ordine dei giornalisti ci è o ci fa. Cioè se ci sia semplicemente una sorta di riflesso di correttismo estremo, di perbenismo un po’ d’antan. Oppure se, invece, questo comitato non si stia prestando a un’operazione di censura da parte del Governo verso un programma giornalistico non gradito. È evidente che la nostra è una narrazione che non piace affatto al governo. In fondo questo governo utilizza spesso degli strumenti anche minacciosi. Pensiamo alla preside Savino a Firenze. Pensiamo al medico del Viminale, Amodeo, sulla spiaggia di Cutro a cui sono stati minacciati provvedimenti. Io spero che non sia vero, non voglio credere che sia così. Auspico che si tratti di un soprassalto di correttismo, onestamente un po’ ridicolo. Però, al contempo, vorrei far presente all’ordine dei giornalisti che bisogna stare attenti a non prestarsi, magari involontariamente, ai desideri di censura. Non è un caso che oggi il giornale ha salutato e inneggiato al provvedimento dell’Ordine, è “Libero”, che ha applaudito addirittura in prima pagina. Lo stesso “Libero” che aveva pubblicato titoli tipo “Dopo la miseria, i migranti portano la malaria” oppure “Diminuisce il PIL e aumentano i gay”. Mi domando, l’ordine dei giornalisti in quel caso cosa fece con quel giornale lì? Ecco”.

E ha anche pubblicato i consigli di Vittorio Feltri che ieri ha tuittato dicendo “Partire è un po’ come morire. E oggi c’è l’ha ribadito.
“Statevene a casa vostra, questo ha detto”.

Francesco Merlo dice cioè che non tutti si possono permettere le stesse parole. Parafrasandolo, pare diverso se una scarpina viene mostrata in un programma di varietà della televisione del dolore, un’altra cosa è se è in un programma di informazione che ha fatto della vocazione, del racconto, del reportage, dell’andare nei luoghi la sua identità. Tu sei stato un inviato, hai anche rischiato la vita, sotto le bombe nella città assediata di Kobanê, nell’attuale Kurdistan siriano…
“Era il 2014. Fummo i primi a passare la frontiera tra la Turchia e la Siria per entrare a Kobanê, che allora era nelle mani dell’Isis. Traversammo la frontiera sotto i bombardamenti, di notte, solo con uno zaino in spalla. Un contrabbandiere ci accompagnò fino al filo spinato, poi dovemmo entrare da soli. Io soffro di emicrania, quindi mi porto sempre dietro le medicine contro il mal di testa e in quella circostanza, quando ero a circa metà della corsa disperata in questo campo, al buio, mi accorsi che avevo lasciato lo zaino nella macchina del contrabbandiere, anche con tutti i soldi, il caricabatteria del telefonino e ogni cosa mi occorresse. Ma quando sono poi tornato sano e salvo da quel reportage, che è diventato un po’ storico, mi resi anche conto che mia moglie si era dimenticata di rinnovare la mia polizza vita sull’assicurazione. Lo seppi solo quando tornai indietro”.

Tu, peraltro, ti sei sempre occupato di raccontare le storie dei bambini in questi teatri di guerra.
“Sì, da sempre. Ho raccontato dei bambini che sono stati rapiti insieme alle loro mamme dall’Isis. La mia vita professionale è dedicata al racconto di queste tragedie. È vero quello che dicevate: sono consapevole che esiste il rischio di spettacolarizzare il dolore, ma dipende tutto dal contesto. Il nostro contesto era molto coerente e molto mirato al racconto di quella tragedia. La scarpetta si inseriva perfettamente in questo quadro. Per questo faccio un appello all’ordine dei giornalisti: cerchiamo tutti di dare un contributo al racconto della verità. Questo significa, per esempio, che dobbiamo anche mostrare i corpi delle vittime. Faccio una battaglia tutte le settimane contro gli uffici legali, perché teoricamente i morti non vanno mostrati. Ma la guerra è fatta di morti. Noi non possiamo cedere a un racconto che deve essere per forza compatibile con il piatto di pasta che mangiamo a cena in cui le immagini non devono disturbare. La televisione deve disturbare, deve sconvolgere, deve poterlo fare. Questo credo che sia il ragionamento che – pacatamente – va fatto”.

Come ha reagito la redazione di Piazza Pulita alla notizia dell’intervento dell’Ordine?
“Siamo stati tutti molto colpiti e indecisi su cosa fare. Siete i primi con cui ne parlo, perché onestamente avevo deciso di non parlare. Lo faccio per simpatia verso il vostro giornale, ma davvero non vorrei tornarci più sopra”.

Non ne parlerai giovedì prossimo a Piazza Pulita?
“Credo che ne parlerò in qualche maniera. Penso che questa scarpina debba diventare il simbolo di un tipo di giornalismo che bisogna continuare a fare: in buona fede, con correttezza e, naturalmente, con tatto verso chi è vittima. Il giorno in cui la mamma di uno di questi bambini mi dicesse che non vuole che questa scarpina venga mostrata io mi inginocchierei davanti a lei e non la mostrerei mai più. Ma se me lo chiede, con tutto il rispetto, un senatore della Repubblica, o qualche giornalista un po’ prezzolato, diciamo, preferisco che si faccia i fatti suoi”.

Non è che, forse, sarebbe meglio un Disordine dei Giornalisti, cosa dici?
“Sono d’accordo, anche perché è una vita che sono a favore dell’abolizione dell’ordine dei giornalisti. Non lo dico adesso e solo perché se la prendono con me! Mi difenderò dentro l’ordine, con rispetto. Faremo una battaglia dentro l’ordine e vedremo un po’ che cosa decideranno questi signori. Non mi preoccupo troppo, perché so come spiegare le ragioni di quello che abbiamo fatto. Questa è una battaglia importante. Anzi, credo che sia bene che i nodi vengano al pettine su questioni così importanti”.

Le immagini sono potenti. Nel 2015 l’immagine di un bambino, adagiato senza vita su una spiaggia, proveniente dalla Siria, divenne un simbolo che scosse le coscienze. Chi ti contesta sa che la potenza di queste immagini può cambiare il grande orientamento dell’opinione pubblica. La scarpina è molto meno brutale del corpo, non mostra la morte, ma il suo effetto. È un’immagine più elegante, ma crea forte emozione.
“Quel bambino morto sulla spiaggia di Bodrum si chiamava Alan Kurdi ed era scappato proprio da Kobanê. Angela Merkel aprì la porta a un milione di siriani dopo che quella fotografia scosse tutta l’Europa. Quella foto innescò un’iniziativa politica. Credo che oggi, dopo quella scarpina, ma in generale dopo questa strage, dopo il racconto molto bello e molto forte che è stato fatto da molti colleghi di questa strage, sarà più difficile per il Governo proseguire su una linea politica di pura negazione dell’asilo politico. Questi morti potevano essere risparmiati. Speriamo che non seguano più altri”.