Mafia-stato e Calabria, la ‘ndrangheta diventa “imprenditrice”: il delitto di Cutolo per i capi di Reggio

Stiamo pubblicando ormai da tempo alcuni stralci del libro-inchiesta di Francesco Forgione “Porto Franco: politici, manager e spioni nella Repubblica della ‘ndrangheta”. Dopo avere esaminato a fondo i rapporti tra il clan Piromalli e Marcello Dell’Utri per conto di Silvio Berlusconi, l’autore ci spiega la trasformazione della ‘ndrangheta e i suoi mille tentacoli che coinvolgono anche la magistratura e tutto il sistema che gira intorno alla Giustizia a Reggio Calabria. Roba che scotta e che si aggancia in maniera disarmante al caos delle toghe sporche di oggi. 

La storia non si poteva fermare. Erano d’accordo anche le imprese che, con la fame atavica di lavoro tipica di quelle terre, era giusto valorizzare le “ditte” presenti sul territorio. A dire il vero, ditte non ce n’erano, ma erano spuntate come funghi. Come i camion e le ruspe che da un giorno all’altro avevano invaso le strade della Piana.

Così descrive la sentenza del cosiddetto “Processo ai 60” il proliferare di ditte di movimento terra: “… La prima esigenza di utilizzazione delle risorse locali si esprime sul terreno dei mezzi di trasporto. Ecco la risposta. Sono presenti al lavoro le seguenti ditte: Teresa Albanese, moglie di Antonio Molé, nipote dei Piromalli; Francesca Amato, moglie di Ippolito Stancanelli, fedele dei Piromalli; Rosa Cananzi, moglie di Domenico Piromalli; Domenico Coppelli, cognato di Gioacchino Piromalli; Annunziata Mazza, moglie di Gioacchino Piromalli; Concetta Gullace, moglie di Gioacchino Piromalli, cugino dell’omonimo imputato; Domenico Molé, genero di Giuseppe Piromalli; Rocco Nicoletta, ex autista di Gioacchino Piromalli; Domenica Piromalli, sorella di Gioacchino Piromalli; Giuseppe Piromalli; Gioacchino Piromalli; Giuseppe Tripodi, nipote dei Piromalli; Fiorina Reitano, moglie di Antonino Molé…”.

L’elenco continua con i nomi dei principali boss della Piana e con quelli delle loro mogli, figli, fratelli, cognati; Pesce, Mammoliti, Rugolo, Mazzaferro, Avignone, Crea, Gullace. In pochi mesi erano tutti diventati imprenditori e sotto l’infaticabile lavoro di coordinamento di Gioacchino Piromalli, si erano costituiti in una sorta di “sindacato” delle cosche.

Le cose le avevano fatte giuste: democraticamente avevano spartito i subappalti col metodo proporzionale, ossia per cosca, secondo il peso e l’importanza delle ‘ndrine che don Mommo, con la sua saggezza, aveva “certificato”. 1 miliardo 384 milioni al gruppo Piromalli: 350 milioni 614 mila lire al gruppo Mammoliti; 180 milioni 398 mila lire al gruppo Pesce; 255 milioni 848 mila lire al gruppo Crea; 117 milioni al gruppo Avignone

Avevano calcolato anche gli spiccioli e quelli della Cogitau e della Timperio non avevano battuto ciglio. Anche a parer loro era stato fatto tutto in modo equo e pulito. Che ne potevano sapere quei manager che il ricco parco mezzi di camion, ruspe, gru, scavatori, erano di proprietà di casalinghe, maestre d’asilo, raccoglitori d’olive, bidelle e invalidi civili. Del resto erano tutte persone perbene, perché in quegli anni, tranne qualche diffida di polizia e qualche denuncia per porto d’armi abusivo, chi li aveva mai toccati ai boss e ai picciotti della Piana?

Per questo, quando era arrivato Andreotti lo aveva accolto Gioacchino Piromalli. Perché era lui il capo della vera Confindustria della zona, non quelli dell’Associazione Industriali di Reggio che, in ogni caso, erano sempre amici loro. E poco più di vent’anni dopo aveva forse sbagliato Domenico Pepé quando aveva detto al dottor Lugli e a quelli della Medcenter che loro il contributo se lo meritavano perché il porto l’avevano fatto loro e con le loro mani – che a pensarci gli piangeva il cuore – avevano tagliato quei giardini di agrumi e ulivi che non sarebbero mai più cresciuti? Con la posa della prima pietra del porto, quel 25 aprile del 1975, cominciava un’altra storia. La vecchia mafia con le scarpe ‘nterrate era cosa del passato. Si doveva solo ufficializzare il passaggio dal vecchio al nuovo e per farlo, nella ‘ndrangheta, c’è solo un sistema.

Tre mesi prima, il 20 gennaio del ’75, i fucili di due killer ammazzano a Siderno ‘u ‘zzi ‘Ntoni, il vecchio Antonio Macrì, che fino a quel momento era il capo riconosciuto della ‘ndrangheta della Ionica. Ma erano già insanguinate anche le vie di Reggio, visto che il 1974 si era chiuso con un omicidio da film americano: il piombo dei killer aveva raggiunto Giovanni De Stefano mentre con i fratelli Giorgio e Paolo prendeva un aperitivo al Roof Garden, il bar della Reggio bene all’inizio del lungomare.

Tra la morte di De Stefano e l’ammazzata di ‘zzi ‘Ntoni, i boss della Piana avevano tentato di mettere pace. Si doveva sposare la figlia di don Mommo Piromalli e il patriarca aveva organizzato un banchetto di quelli mai visti. Era la figlia del mammasantissima più amato e rispettato in Calabria e anche fuori, da Roma a Toronto, dall’America all’Australia, e non poteva essere un matrimonio come quello degli altri. Erano arrivati, con regali dell’altro mondo, tutti i capi delle ‘ndrine della provincia e qualcuno pure dall’estero. L’unico che non si era visto era don Mico Tripodo. Non si sa se era latitante o se, con l’aria di guerra che tirava, temeva un agguato. In realtà i Piromalli col matrimonio avevano fatto un poco di tragedia. Loro la pace la volevano, ma avevano anche scelto da che parte stare e con la morte di ‘zzi ‘Ntoni nessuno avrebbe più fermato gli eventi.

Il 21 febbraio del 1975 il vecchio capo di Reggio, don Mico Tripodo, viene arrestato. Lo chiudono a Napoli, nel carcere di Poggioreale, ma non ci rimane a lungo. Il 26 agosto del 1976 due uomini della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo entrano nella sua cella e lo finiscono a coltellate. Il boss di Ottaviano aveva ripagato i nuovi rampanti capi di Reggio di tutti i favori che gli avevano fatto con le sigarette e con la droga, che don Mico, mammasantissima all’antica, non voleva trafficare.

I De Stefano crescevano di forza militare e d’autorità. Forse troppo e troppo in fretta. Così pensavano molti capibastone, pure tra quelli che gli erano amici e li avevano appoggiati nella loro ascesa. Il 7 novembre del 1977, all’Acqua del Gallo, sull’Aspromonte, è convocato un vertice per discutere di limitare i sequestri e gli attentati che stanno riempiendo di sbirri i paesi e la montagna. L”incontro però non si terrà. Don Peppino Piromalli, senza motivo, non si presenta al luogo dell’appuntamento e Giorgio De Stefano, appena arriva viene ammazzato con una fucilata alle spalle. Aveva sparato Giuseppe Suraci, un soldato della cosca di Francesco Serraino, ‘u re d’a muntagna. Con una sceneggiata di quelle che solo la ‘ndrangheta sa fare, dopo pochi giorni la testa mozzata di Suraci viene portata dentro una scatola a casa di Paolo De Stefano, il fratello del boss ucciso. Giustizia era stata fatta. Ma era solo teatro: nessuno si sarebbe permesso di ammazzare un capo durante un summit senza il permesso degli altri capi. Soprattutto di quello che, senza motivo, non si era presentato all’incontro. Chi doveva capire avrebbe capito.

I De Stefano, che avevano vinto la guerra contro i Tripodo, potevano continuare ad andare avanti, ma senza prosopopea e arroganza, e soprattutto camminando con rispetto verso gli alleati. In realtà nella guerra di traghettamento dalla vecchia alla nuova mafia, gli unici che non erano stati colpiti e che potevano rappresentare la tradizione e il futuro, erano loro, i boss e i signori della Piana, uomini saggi e di pace.