Massomafia a Nocera Terinese: Motta, il Riesame e le “prove” che non bastano mai

“Difetto di gravi indizi di colpevolezza”. Che si traduce con una conseguenza che lascia poco spazio a fraintendimenti: come già fatto dal Gip ad aprile scorso, il Tribunale del Riesame di Catanzaro ha rigettato la richiesta di carcerazione avanzata dalla Dda nei confronti di Pasquale Motta, giornalista (ex direttore di LaC) e politico di Nocera Tirinese: per gli inquirenti, il volto di uno stratega occulto, referente della cosca  di ‘ndrangheta dei Bagalà, dominus, personalità in grado di mettere l’intera coalizione a disposizione della criminalità organizzata.

Accuse sintetizzate e riassunte nell’operazione denominata “Alibante”, che ha portato all’emissione di 19 misure cautelari, per i reati, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, concorso esterno in associazione di tipo mafioso, scambio elettorale politico-mafioso, corruzione, estorsione, consumata e tentata, intestazione fittizia di beni, rivelazione di segreti d’ufficio e turbativa d’asta. La Dda ha acceso i riflettori sui comuni di Falerna e Nocera Terinese, nel Lametino. Ed è proprio la partita elettorale del 2018 di Nocera che mette nei guai il giornalista, dimessosi il giorno dopo “Alibante” dalla carica di direttore responsabile di Lac news. Sia lui che Bagalà avrebbero avrebbero voluto far elegger Massimo Pandolfo a sindaco, in modo tale per Motta da inserirsi ” in maniera occulta nell’amministrazione comunale non potendo più candidarsi in prima persona, essendo oramai “bruciato” politicamente”.

Una ricostruzione che però, per i giudici del Tribunale del Riesame (presidente Giuseppe De Salvatore, estensori Mellace e Mazzotta) interpellato come Appello cautelare, non fa i conti con le lacune investigative portate a supporto di questa tesi. E che si scontra con le tesi difensive supportate dall’avvocato di Pasquale Motta,  l’avvocato cosentino Vincenzo Belvedere.

I magistrati giudicanti mettono in luce un elemento fondamentale: tra il presunto boss Carmelo Bagalà e Motta manca un contatto diretto, un colloquio, una conversazione o un modo per dimostrare che esista un interessa comune nella valorizzazione della stessa lista. Non c’è e non viene portato in aula. E anche quando sembra potersi scolorire il tracciato che porta alla configurazione di un contatto indiretto (l’ex sindaco Ferlaino dice a Motta di aver parlato con i “vertici” per la formazione della lista elettorale), la difesa di Motta riesce a convincere i giudici: si tratta di vertici politici, visto che si parla di politica e il termine utilizzato non basta a rendere a dimostrare la consapevolezza e volontà di Motta a contribuire a realizzare un disegno criminale. Insomma: non basta per buttarlo in carcere.

“La convergenza di interessi politici tra Motta e Bagalà e la comune volontà di formare una coalizione elettorale in vista delle elezioni del consiglio comunale non sono dati sufficienti a corroborare il dolo del concorrente esterno, essendo necessaria a tal fine una prova più pregnante che attesti la volontà dell’indagato di contribuire con il suo operato alla realizzazione del programma criminoso della consorteria mafiosa”, si legge nella sentenza di cinque pagine che rigettano la richiesta di emissione della misura cautelare del carcere con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.

Ma c’è di più. La Dda guidata da Nicola Gratteri cerca di superare il cavillo già emerso in fase di valutazione del gip che aveva rigettato la richiesta cautelare: l’assenza di contatti tra Bagalà e Motta. Qui gli investigatori avanzano una teoria che però crolla sull’altare delle prove:  “La scelta di Motta di non avere contatti diretti con Bagalà è stata una precisa strategia e una scelta oculata, evidentemente finalizzata a evitare controlli o indagini”, avanza la Procura. Per sentirsi rispondere che “l’assenza di contatti tra il boss e l’indagato – anche qui ritenuta decisiva ai fini di questa valutazione -non può essere giustificata in base a presunte accortezze adoperate dai due per eludere possibili attività investigative. Tale obiezione rimane priva di concretezza proprio perché non vi è prova di un rapporto sinergico a monte tra Bagalà e Motta dal quale astrattamente potevano derivare rischi connessi”.

Come è stato infatti dimostrato finora, il presunto boss e Motta non parlavano ormai da anni (“io non non gli parlo da tanti anni”, dice Bagalàe la circostanza che le cimici non siano riuscite ad intercettare un rapporto diretto, forse, sta ad indicare che non è mai avvenuto. E che tra Bagalà e Motta non c’è stato “nessun accordo o sinergia”, come ha già evidenziato il gip di Catanzaro. Fonte: La Nuova Calabria