‘Ndrangheta, processo Aemilia: 125 condanne per la ‘ndrina del clan Grande Aracri

E’ una sentenza che conferma pienamente la presenza radicata della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, dopo le conferme in Cassazione per gli abbreviati, quella arrivata oggi con il verdetto pronunciato nel primo pomeriggio in Tribunale a Reggio Emilia dal collegio dei giudici presieduto da Francesco Maria Caruso (affiancato a latere da Cristina Beretti e Andrea Rat) che poco dopo l4, dopo un’ora di lettura, ha condannato in primo grado 125 dei 148 imputati; 19 le assoluzioni e quattro le prescrizioni.

Non vi è dubbio quindi dell’esistenza di una ‘ndrina attiva da anni in Emilia e nel mantovano con epicentro a Reggio Emilia, diretta emanazione della cosca Grande Aracri di Cutro, ma autonoma e indipendente da essa.

Tra le condanne: 9 anni e 10 mesi ad Augusto Bianchini, 4 anni alla moglie Bruna Braga, 3 al figlio Alessandro. Assolti gli altri due figli, Nicola e Alessandra. Condanne pesanti per i Bianchini, la famiglia di imprenditori edili modenesi impegnati nella ricostruzione e ritenuti responsabili di aver favorito gli affari della cosca di Grande Aracri, attraverso il luogotenente Michele Bolognino, condannato a 20 anni e 7 mesi. Condannato, come riportato da TRC, anche l’altro imprenditore Gino Gibertini, accusato di estorsione: per lui 8 anni di carcere.

E, ancora, 11 anni a  Vincenzo Mancuso, nove a Francesco Pelaggi. Grida in aula per le condanne di Salvatore e Floriana Silipo. 19 anni a Giuseppe Iaquinta il quale esce dall’aula gridando: “Siete ridicoli”. Due anni a Vincenzo Iaquinta, ex giocatore della Nazionale e della Juventus. Per lui la Dda aveva chiesto sei anni, per reati di armi. Il padre dell’ex calciatore, Giuseppe Iaquinta, accusato di associazione mafiosa, è stato condannato invece a 19 anni. Padre e figlio se ne sono andati dall’aula del tribunale di Reggio Emilia urlando «vergogna, ridicoli».

IL GRANDE BLITZ

In questi due anni il processo ha visto il susseguirsi di 195 udienze per valutare la posizione di 148 imputati, conviene riannotare la portata deflagrante dell’inchiesta Aemilia a fronte degli anticorpi regionali contro le infiltrazioni.

Che l’Emilia-Romagna sia terra di ’ndrangheta ormai lo ha sancito la Cassazione nel condannare i 46 imputati che avevano scelto i riti alternativi. Tra loro, oltre al boss Nicolino Grande Aracri, che in questo processo ha comunque avuto un ruolo sfumato, c’erano molti dei capibastone: Alfonso Diletto, Romolo Villirillo, Francesco Lamanna e Antonio Gualtieri. Tutti volti diventati “famosi” il 28 gennaio 2015 quando i carabinieri effettuarono un imponente blitz tra le province di Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza. Era di fatto l’ultimo atto di un’inchiesta durata anni e partita dal Nucleo operativo dell’Arma di Modena. Perché il primo reato spia fu registrato a Sassuolo nel 2010 quando una bomba fece esplodere l’Agenzia delle Entrate. Iniziarono gli accertamenti, suggellati dall’operazione “Point Break” che portarono all’arresto anche di Paolo Pelaggi, uomo del clan Arena e poi coinvolto in Aeilia in veste di riciclatore del denaro della cosca. Cinque anni dopo, seguendo Pelaggi oltre ad alcuni reati a Fiorenzuola – tra cui l’incendio dell’auto di un imprenditore – gli investigatori, coordinati dalla Dda di Bologna, con a capo il procuratore Giuseppe Amato e i sostituti Marco Mescolini e Beatrice Ronchi, hanno chiuso il cerchio.

I REATI

L’associazione mafiosa è certamente la contestazione più importante, ma negli ultimi due anni di udienza si è a lungo parlato anche di detenzione di armi, spaccio di droga, estorsioni, usura, fatture false, intestazioni fittizie, riciclaggio, bancarotta fraudolenta. Un caleidoscopio di imputazioni che dimostrno come la lunga mano ’ndranghetista si sia allargata su più fronti e si sia sviluppata con modalità diverse, facendo comunque sempre leva sulla potenza del denaro. Quel denaro che haportato la famiglia Bianchini sul banco degli accusati per i rapporti con Michele Bolognino e le fatture false con Pino Giglio, quel denaro che Gino Gibertini voleva – forse – recuperare dal creditore ritardatario e sfuggente