Reggio, sanità e ‘ndrangheta “Inter nos”: le pressioni di Paris su Spirlì e Scaffidi per il funzionario dei clan

di Alessia Candito

Fonte: Repubblica

La sanificazione degli ospedali anche in tempi di Covid a Reggio Calabria era cosa di ‘Ndrangheta, grazie a funzionari dell’azienda sanitaria provinciale complici e al consigliere regionale amico, Nicola Paris, per questo finito ai domiciliari. Lo ha scoperto la procura antimafia di Reggio Calabria, guidata da Giovanni Bombardieri, che ha chiesto e ottenuto l’arresto per 16 persone, 9 in carcere e 7 ai domiciliari, più l’interdizione dai pubblici uffici per  il funzionario dell’Asp Giuseppe Galletta. In manette sono finiti l’ex dirigente dell’Asp, Giuseppe Corea, più una serie di imprenditori legati ai clan Domenico Chilà, Antonino Chilà, Giovanni Lauro, Antonino D’Andrea, Mario Carmelo D’Andrea, Francesco Macheda, Nicola Calabrò e Massimo Costarella. Ai domiciliari vanno invece l’ex consigliere regionale Nicola Paris, la funzionaria dell’Asp Filomena Ambrogio, gli imprenditori Angelo Zaccuri, Lorenzo Delfino Sergio Piccolo, Gianluca Valente e l’impiegato della Direzione sanitaria dell’ospedale di Melito Salvatore Idà. Indagati a piede libero risultano invece l’ex direttore generale dell’Asp Grazia Rosa Anna Squillacioti, l’ex commissario Francesco Sarica e la dirigente dell’ufficio Programmazione e Bilancio dell’Azienda sanitaria Angela Minniti.

Secondo quanto emerso dalle indagini della Guardia di Finanza, coordinate dal procuratore Giovanni Bombardieri, dall’aggiunto Gerardo Dominijanni e dai pm Walter Ignazitto, Giulia Scavello e Marika Mastrapasqua, le aziende dei clan specializzate in pulizia e sanificazione per anni sono riuscite a monopolizzare gli appalti negli ospedali e nei poli sanitari del reggino, grazie ad affidamenti più e più volte prorogati in maniera del tutto illecita. E quando alla fine è stata bandita una gara, grazie ad un collaudato sistema di corruttele  sono state sempre loro ad aggiudicarsela, dopo essersi costituite in Ati (associazione temporanea di imprese), la Helios società cooperativa. All’interno, uomini e aziende legati ai clan della città e della provincia, dai Serraino di Reggio Calabria agli Iamonte e ai Floccari della Jonica. 

“Le condotte corruttive emerse hanno riguardato e riguardano sia la fase dell’aggiudicazione degli appalti che quelle di successiva gestione del servizio in esecuzione dei contratti, nonché l’adozione delle relative proroghe, facendo emergere – si legge nelle carte – uno strutturato e consolidato mercanteggiamento dei pubblici poteri, le sistematiche ed indebite contiguità tra interessi dei privati e dei pubblici funzionari”. E lo spaccato che emerge, scrive il giudice Karin Catalano, è quello di “un avvilente e collaudato sistema di svendita e costante mercimonio delle pubbliche funzioni”.

Il sistema era collaudato e calcolato al millimetro. Anche per ammortizzare le uscite necessarie per “ungere” i funzionari, le imprese dei clan avevano messo a punto un meccanismo rodato: false fatture per operazioni inesistenti fatte emettere ad aziende complici e regolari estorsioni ai propri dipendenti, costretti a versare ogni mese 250 euro del loro già magro stipendio.

A guadagnarci erano solo i clan, che per tutelare il proprio business potevano contare anche sul consigliere regionale Nicola Paris. Eletto con l’Udc, subito poi abbandonata, nel corso della sua carriera politica Paris è più volte transitato sotto le bandiere di diversi schieramenti. Eletto con il centrodestra nel 2011 al consiglio comunale di Reggio Calabria, sciolto l’anno dopo per infiltrazioni mafiose, nel 2014 è tornato in Comune da consigliere grazie alle liste di centrosinistra, per poi ripassare a destra alla vigilia delle regionali del 2020. Per i magistrati, era lui il politico di riferimento degli imprenditori dei clan che si nascondevano dietro la Helios. E la “conquista” di un rappresentante istituzionale colluso era un progetto di lungo periodo.

“Lo scopo principale del consorzio – dicono gli imprenditori dei clan ascoltati dai finanzieri – non è quello che facciamo le gare, lo scopo principale del consorzio è quello di prendere un nostro rappresentante, un ragazzo che entriamo noi, che lo portiamo noi, che sappiamo che ha zero voti e che è entrato grazie a noi e quello lo mettiamo e deve fare quello che diciamo noi”. Un soggetto che per inquirenti e investigatori si identifica in Nicola Paris, il quarto esponente della maggioranza di centrodestra (gli altri tre sono Talarico, Tallini e Creazzo, ndr) in Regione travolto da un’operazione antimafia dall’inizio della legislatura.

È a lui che, in nome del sostegno tributato alle ultime regionali, hanno chiesto di far pressione sul governatore facente funzioni Nino Spirlì e sul neo commissario dell’Azienda sanitaria di Reggio Calabria, Gianluigi Scaffidi, perché confermassero l’incarico al direttore finanziario dell’Asp, Giuseppe Corea. Un jolly cui le imprese dei clan non volevano rinunciare. Mazzette e un iphone di ultima generazione bastavano per ottenere pagamenti regolari e in prospettiva gare disegnate ad hoc.

“La vicenda della lucrosa proroga dell’incarico procurata dal gruppo al direttore Corea ed ottenuta tramite l’intervento che il consigliere Paris operava presso il governatore Spirlì e il commissario straordinario alla sanità Scaffidi – scrive il giudice – è la dimostrazione più eclatante di quanto i consorziati intendessero perseguire, incarnando esattamente il livello di influenza politica che i dialoganti si riproponevano di raggiungere: il condizionamento diretto ed interno delle scelte di sistema, riservate ai livelli più alti dell’amministrazione del tutto deviate dall’interesse pubblico e piegate al soddisfacimento di biechi interessi particolari, per di più riferibili ad organizzazioni criminali”. Parole pesantissime, assai diverse da quelle che al “suo” consigliere riserva il governatore facente funzioni, Nino Spirlì, che pur professando fiducia nella magistratura augura “a Paris di riuscire a provare la sua assoluta innocenza”, sottolineando che “in questo momento va ricordato che è indagato per cui non stiamo parlando di condanne” e che “la cosa più importante è di non avere mai né pregiudizi nei confronti di nessuno, né condannare chi non è ancora condannato, perché c’è bisogno di pacificazione”.

Ma di sanità e soprattutto di mancanza di uomini e mezzi in Calabria si muore. Fatto notorio da almeno un decennio, divenuto ancor più evidente in epoca di pandemia, quando la regione è stata costretta in zona rossa non dal numero di contagi, ma dalla fragilità dello scheletro sanitario. Ed anche in quel periodo, emerge dall’inchiesta, l’interesse degli imprenditori dei clan e delle loro aziende veniva prima di quello della comunità. Durante il primo lockdown, quando da tutti gli ospedali medici e infermieri lanciavano richieste disperate di dispositivi di protezione, i titolari della Helios facevano incetta di mascherine, sottraendole ai sanitari. E lo stesso è avvenuto quando la campagna di vaccinazione è partita. Tutte vicende ancora in corso di approfondimento, si segnala nelle carte, ma che già così mostrano “il senso di impunità e di indifferenza verso la cosa pubblica degli indagati, il desiderio di accaparrarsi ad ogni costo e sfruttare ogni possibile risorsa della sanità”.