Roberto Saviano: Perché Sandokan ha cambiato idea? (Sempre che si penta davvero)

(Roberto Saviano – corriere.it) – La notizia del pentimento di Sandokan Schiavone per me è stata travolgente. Anni fa lo avevo invitato a pentirsi dicendogli che il suo potere ormai era in crisi. Sandokan Schiavone è il capo del clan dei Casalesi. I Casalesi vengono governati da più di un decennio, da una diarchia, Sandokan Schiavone e Cicciotto di Mezzanotte Bidognetti. Insomma, il suo pentimento, se reale, reale significa che racconta davvero, potrebbe fare la differenza. Lui conosce mezzo secolo di storia del potere camorristico. È stato il clan, tra i pochissimi, ad avere direttamente un proprio rappresentante al governo, il sottosegretario all’Economia, Cosentino, che sta scontando carcere per questo. Insomma, se davvero dovesse collaborare, intendo dire collaborare veramente, perché ciò che hanno fatto fino ad ora i figli e la moglie non sembra fare la differenza. La grande paura è che abbia trovato un momento di equilibrio in cui non ha Sa bene che non c’è un vero contrasto da parte dello Stato delle organizzazioni criminali. Intendo dire il contrasto economico, non gli omicidi e i sequestri di roba. Contrasto economico-imprenditoriale. Francesco Sandokan Schiavone ha fatto la differenza nella storia del crimine organizzato perché imprenditore e capo militare, e killer. Quindi non solo col letto bianco. Capace di uccidere e capace di investire. queste sono le caratteristiche che rendono l’individuo un capo e non semplicemente un soldato. O un colletto bianco.

Davvero collaborerà? Farà come Antonio Iovine che ci racconterà, è quello che è emerso sino ad ora, ci racconterà cose che sapevamo già fondamentalmente, semplicemente dandoci informazioni su questioni non chiuse con la giustizia, ma già chiuse nell’analisi dei fatti, omicidi di cui in realtà avevamo già tutti indizi, oppure ci svelerà nuove, come spero, nuove possibilità di conoscenza. Soprattutto trovare i soldi, dove sono, dove sono i loro soldi, dove vengono nascosti, in quali paradisi offshore, quali sono i codici alfanumerici che nascondono il loro danaro e tutti i rapporti con l’imprenditoria e con la politica. Insomma, Sandokan non è l’antistato. Mai fare questo errore. Sandokan è una parte dello Stato.

La Camorra è una parte dello Stato. Esiste una parte di Stato infiltrata da loro, loro alleata, e poi esiste una parte che li contrasta dello Stato. E poi c’è la più vasta e variegata, quella al centro, equidistante. A volte sta con gli uni e a volte sta con gli altri. ecco vediamo come andrà prima di considerare questa una vittoria vediamo cosa dirà soprattutto continuiamo a dare attenzione a questa vicenda 26 anni di carcere si è fatto, 26 anni di carcere duro e quel suo silenzio ha garantito l’essere ai vertici il continuare a essere Re e ora di certo non è più il capo. Anche se dovesse pentirsi raccontando poco o cercando di manipolare il più possibile le informazioni, non sarà più capo. Chi collabora con la giustizia non può. Più comandare, però potrebbe averlo fatto perché. Deve aggirare l’ergastolo ostativo L’ergastolo ostativo è fondamentale, no? Nel senso che a un boss blocca la possibilità di uscire dal carcere anche se ha scontato i 30 anni. A 26 anni di carcere sa che o si pente o muore in galera. Aveva deciso di morire in galera, qualcosa gli ha fatto cambiare idea. La possibilità di salvare la sua famiglia, la possibilità effettivamente di raccontare o uno Stato molto fragile a cui basterà dire qualche fesseria per poter recuperare la vita libera. Soltanto il tempo e l’attenzione su questa dinamica ci farà capire.

Schiavone ha deciso di abdicare, ma le cose importanti (forse) non le svelerà

È stato un re spietato e calcolatore. Adesso temo che voglia sfruttare la debolezza del nostro Paese raccontando solo omicidi e appalti perché sa che è l’unico modo per uscire

 Schiavone ha deciso di abdicare, ma le cose importanti (forse) non le svelerà

(di Roberto Saviano – corriere.it) – Avevo 19 anni, era pieno luglio, e calò un clima di paura e ansia a Casal di Principe e in tutta la provincia casertana. Il re del clan Francesco Schiavone era stato preso. Era il 1998, a nessuno sembrò una fine ma solo un avvicendamento di potere. E infatti fu così: rimase re, anche in carcere in questi quasi tre decenni. Re fino ad oggi. 26 anni sono passati da quel giorno, 26 anni di carcere duro ha passato Schiavone. Perché solo ora decide di parlare? Perché dopo quasi 30 anni?

La scelta

La risposta è una. Schiavone è vicino a scontare la totalità della sua pena ma sa che se non si pente non uscirà mai. Si trova a un bivio: conservare la propria leadership mantenendo il silenzio o perderla per sempre parlando. Decidendo di collaborare con la giustizia ha fatto la sua scelta, non è più il capo. Ma è bene averlo chiaro, non significa affatto che davvero rivelerà ciò che vogliamo sapere da lui. Prima di lui, al pentimento è arrivato il suo primogenito Nicola, che porta il nome di suo nonno e che avrebbe dovuto ereditare il potere di Sandokan senza mai riuscirci. Ad oggi le sue rivelazioni non sembrano essere così determinanti. Stessa cosa per sua moglie, Giuseppina Nappa, e per l’altro figlio Walter: collaborano ma non sembrano aver svelato nulla di quello che ci aspettavamo. Il pericolo più grande è che le organizzazioni abbiano capito da molti anni che lo Stato vuole poter comunicare il pentimento di un boss come un’immediata vittoria e poi quello che dicono, il poco che dicono, non importa. Si vende mediaticamente una vittoria che di fatto non c’è.

Da quando sono nato, il suo nome e anzi soprattutto il suo soprannome — dovuto alla somiglianza con l’attore Kabir Bedi che interpretava Sandokan nella fiction che fermava un intero paese quando andava in onda — hanno accompagnato la mia vita. Ora che si pente ne ho quasi rabbia perché, per 20 anni, quando abbiamo provato, in pochi, a raccontare il suo potere venivamo sminuiti. Quando denunciavamo le sue alleanze politiche venivamo considerati ideologici. Quando mappavamo e descrivevamo l’economia condizionata venivamo considerati esagerati. E ora che è pronto alla resa, a nessuno verrà concesso l’onore di veder riconosciuto di aver bruciato la propria vita nell’inseguire il potere di una delle figure più pericolose e determinanti del crimine del nostro continente. Nel 2010 provai, con un articolo pubblico, a chiedere a Schiavone-Sandokan di pentirsi: lo invitai a farlo per salvare i suoi figli, tutti pronti a una vita di ergastolo. Non lo fece. Lo fa ora, probabilmente in un momento in cui il clan è in grande agonia, un’agonia dovuta, da un lato a quel capolavoro d’inchiesta giudiziaria che è stata il processo Spartacus, e dall’altro alla luce mediatica accesa su di loro. Non riescono più a gestire i loro affari.

La storia di Schiavone-Sandokan

Sapete davvero chi era Sandokan? Cosa posso raccontarvi in poche righe? Val la pena raccontare come divenne re. Figlio di don Nicola, che conosco bene, fu l’unico uomo mandato in piazza a Casal di Principe a sfidarmi, e a dirmi in faccia che ero un buffone. Era un imprenditore agricolo, un mandriano, «guappo», ma non un vero e proprio camorrista. Ciccio, questo era il nome di Francesco Schiavone, prima del suo epico soprannome, si iscrive a medicina senza laurearsi, è destinato a essere un imprenditore come il padre. Appartiene però a quella generazione casertana che sta scalando le vette perl’assalto al cielo dell’economia italiana. È la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, Casal di Principe, San Cipriano D’Aversa e Casapesenna sono il cuore pulsante del cemento armato e, cioè, dell’edilizia camorristica che costruisce mezza Italia. L’alta velocità, gallerie autostradali, assi mediani, e poi ancora condomini, fabbriche, centri commerciali e, ancora, pompe di benzina, discariche, trasporto su gomma e su ferro, tutto questo erano e sono il clan dei casalesi.

Il giovane Francesco Schiavone cresce all’ombra del più carismatico dei capi, don Antonio Bardellino, l’uomo che vince la guerra di camorra più feroce della storia (quella tra Nco, Nuova Camorra Organizzata e nuova famiglia). Antonio Bardellino è un capo inarrivabile per carisma e capacità organizzative. Schiavone gli è accanto, lo serve e lo osserva. Il rapporto tra loro è il rapporto tra un allievo che ama il maestro e un maestro che ha troppi allievi da amare. Sandokan vorrebbe essere il prediletto ma non lo è. L’uomo più vicino a don Antonio a Casal di principe è Marittiello Iovine. E qui nasce una delle strategie subdole e meglio riuscite dei complotti criminali. Antonio Bardellino ormai da anni viveva nella Repubblica Dominicana e in Brasile, dove c’era la sua vita e la sua famiglia. Comandava da lontano, sempre più assente, sempre più distante dagli interessi e dalle occasioni del territorio. Il clan convince Antonio Bardellino a tornare. Sandokan si reca insieme ad altri da don Antonio e gli dice che il fratello di Marittiello Iovine, Mimì, è «casermiere», ossia uno che troppo spesso parla con i carabinieri per evitare, essendo lui non camorrista, le continue pressioni e perquisizioni che le polizie fanno solo perché fratello del boss. Bardellino è molto inquietato, ma prende tempo. Poi vanno da Mario Iovine e gli dicono che don Antonio è convinto che suo fratello Mimì vada in giro per caserme a dare informazioni sul clan. Proprio lui che grazie al clan può vendere armadi, tavoli e sedie a prezzi di concorrenza, e che quindi non avrebbe mai avuto interesse a mettere in crisi il clan. Non sappiamo con esattezza come finì la storia.

Secondo alcuni collaboratori di giustizia — per esempio il pentito Galasso — sembra che Antonio Bardellino e Mario Iovine si siano parlati e Iovine abbia accettato di assai cattivo grado di sacrificare il fratello Mimì per allontanare ogni sospetto di collaborazione tra la sua famiglia e gli «sbirri». Domenico Iovine viene ammazzato mentre sta andando al lavoro. Antonio Bardellino è già ritornato in Sud America. Sandokan presenta a Mario Iovine una lista di persone interne alle forze dell’ordine che giurano che Mimì non ha mai firmato un verbale e non è mai stato confidente. Antonio Bardellino ha voluto in questo modo solo umiliare un suo possibile rivale dimostrando a tutti che se lui vuole può pretendere dai suoi figliocci di assassinare anche i loro fratelli. Mario Iovine è carico di rabbia, vola in Brasile per incontrare don Antonio, e mentre sono in giardino gli sfonda il cranio a martellate. Questo è quello che dicono, perché il corpo di Antonio Bardellino non è mai stato trovato. E secondo altri, si sono solo accordati. Bardellino ha accettato che fossero uccisi i suoi nipoti rimasti in Campania in cambio della sua nuova anonima vita in Sud America. Secondo la legge italiana Bardellino viene ucciso in quell’occasione, e questo è ciò che voleva Sandokan, che proprio in quelle ore convoca l’erede di Bardellino, Paride Salzillo, in una masseria, dicendo che lo zio doveva parlare per telefono a tutto il clan. Quando entro in stanza Salzillo capisce che è un tranello e che è giunto il tempo della sua esecuzione. Si siede, e si lascia strangolare. Il nuovo capo del clan è Marittiello.

Le qualità criminali

Qui arriva un colpo di fortuna, quello che sempre aiuta il destino di un capo. Una fazione del clan, tenuta all’oscuro dell’esecuzione di Antonio Bardellino, vuole vendicare il capo e ammazza Mario Iovine a Cascais in Portogallo, dove si era spostato a vivere. È questo il momento di Sandokan. Non riuscirà mai a essere l’unico leader dell’organizzazione. Sarà sempre una diarchia, da un lato Sandokan, dall’altra Cicciotto di mezzanotte ossia Francesco Bidognetti. Schiavone sintetizza in sé due qualità criminali — le uniche due — che permettono a un camorrista di essere un leader: capacità imprenditoriali e capacità militari. Da un lato, è un feroce e sanguinario assassino, capace di ordinare l’esecuzione di un uomo perché ha corteggiato una sua nipote e di organizzare un corteo armato con fucili d’assalto in pieno giorno per cacciare le famiglie rivali da Casal di principe. Ma al contempo, è capace di costruire il più grande zuccherificio del Mediterraneo e, insieme a Bidognetti, edificare il sistema di smaltimento illegale di rifiuti tossici e urbani più importante della sua epoca.

Nel 2005, Sandokan scrisse a un giornale locale (il sistema dei giornali locali è sempre stato utilizzato da Sandokan per veicolare informazioni e dare messaggi) che volentieri scontava i suoi ergastoli pur di non mangiare «carne umana» come fanno i collaboratori di giustizia che per ottenere libertà, diceva, raccontano storie e fanno nomi obbedendo solo alle richieste dei magistrati e non alla verità dei fatti. Sembra aver cambiato idea. Quando i poliziotti lo arrestarono in via Salerno, entrarono nella sua villa e per dodici ore non trovarono nulla. Fu solo l’intuizione del poliziotto che comandava l’operazione che vide nel canile due strani tubi. Erano due sfiatatoi. Nei tubi fece sparare dei gas lacrimogeni e dopo pochi secondi si sentì un urlo. «Smettetela! Ci sono le bambine!». Sandokan aveva costruito un bunker in cemento armato sotto casa sua, praticamente inaccessibile. Né ruspe, né martelli pneumatici avrebbero permesso di scovarlo perché non era nascosto dietro tramezzi o controsoffitti.

I casalesi, che sono all’avanguardia nelle costruzioni edili, i propri bunker li edificano nel cemento armato. E solo con lo stratagemma del gas è stato possibile sorprendere il boss. I suoi numerosi figli, da Nicola il primo a Ivanhoe il più piccolo, passando per le due gemelle che stavano con lui il giorno della cattura, sono cresciuti senza padre ma nel mito di Sandokan. L’unico capo in grado di avere un diretto referente politico ai vertici dello Stato, il sottosegretario all’economia Nicola Cosentino, attualmente in carcere. L’unico capo capace, come accadde nel 1992, di decidere di far cadere il partito che sempre aveva sostenuto — la Democrazia Cristiana — e far vincere il partito liberale che a Casal di Principe prendeva l’1% dei voti e quando si candidò l’avvocato del clan Martucci prese il 30%.

Cosa dirà ora?

Cosa dirà Sandokan ai magistrati? Temo che sfrutti l’attuale debolezza del nostro Stato che non pone nessuna centralità al contrasto dell’economia mafiosa. Di conseguenza rivelerà soltanto omicidi e qualche appalto, ma non svelerà il tesoro del clannon svelerà le coperture politichenon svelerà l’origine criminale di diversi noti imprenditori italiani (editori, costruttori, finanzieri). Chi studia il potere della camorra conosce benissimo il Dna di questi ultimi che ho appena citato ma sente la carenza delle indagini, la difficoltà, l’arrancare dello Stato che vedrebbe — se ci fossero vere e approfondite indagini — collassare una parte corposa dell’imprenditoria del proprio paese. Sandokan svelerà tutto questo? Davvero indicherà dove si trovano i soldi? Spero di sì. Ma non ho convinzione che accada. Sono persuaso sfrutti la distrazione per ottenere vantaggio. Sandokan non è l’antistato. La camorra e la mafia non sono l’antistato, sono una parte dello Stato. È importante essere chiari su questo: le mafie sono una parte integrante dello Stato e sono contrastate da un’altra sua frazione. Nello spazio fra questi due poli, vi è la più ampia fetta di Stato che, a seconda del proprio vantaggio, ondeggia tra la repressione, la complicità e, più spesso, l’indifferenza.

Non so come finirà questa storia. Penso a quei pochi procuratori e politici e a quei rari giornalisti che in questi anni si sono impegnati e schierati contro il clan. A nessuno verrà dato merito. Riconoscere merito significherebbe per molti — istituzioni e società civile — attestare la propria codardia. La mia più grande paura è che possa sembrare una resa, ma che in realtà stiano ancora vincendo, proteggendo i propri soldi, evitando gli ergastoli e accordandosi con i nuovi capi. Le organizzazioni criminali sono l’economia vincente del nostro paese. Tutti sembrano esserselo dimenticato.