Scalea. Si taccia sul privato, ci si interroghi sul problema del femminicidio (di Saverio Di Giorno)

di Saverio Di Giorno

La penna cerca di posarsi piano sul foglio. Le analisi, i racconti restano parole che mai riusciranno a sopraffare il boato di uno sparo. L’inchiostro non sa e non deve mescolarsi al sangue versato. Ed è con questo inchiostro rosso che Antonio ha deciso di scrivere questa storia di femminicidio, decidendo lui i ruoli: lui responsabile, lei, Ilaria, vittima. E se sul privato ormai diventato freddo come i loro corpi è doveroso stendere una coperta di pietà e dispiacere, non bisogna farlo sul dato sociale. Questo sì sempre caldo.

Al chiacchiericcio sterile, alla morbosa curiosità e alle polemiche indecenti sulla decisione – ovvia e dovuta – di porre il lutto cittadino per Ilaria è fatto seguito solo il silenzio. Di rispetto, di lutto. Ma anche di oblio. Di voglia di dimenticare e andare oltre. Si può, ma non si deve. 109 donne uccise nel 2021, erano 92 nel 2019. Da inizio anno il conteggio nero segna già 51 corpi. 52 con Ilaria.

Eccolo il dato sociale. Eccola la comunità che si riunisce attorno alle panchine rosse (salvo poi vandalizzarle), ma che cerca di dimenticare questa storia per non voler dire che l’aria che respirava Antonio è la stessa che respirano tutti. Intrisa di maschilismo debole e quindi iracondo. Incapace di accettare i fallimenti perché convinto di poter decidere sul mondo e sulla vita. Soprattutto incapace di scindere la fine di una relazione dalla sensazione di aver fallito. Il tema culturale riguarda le intimità della nostra società, non il privato della loro relazione.

Di questo si sarebbe dovuto dibattere. Di questo si deve dibattere. Bisogna farlo nelle scuole dove occorre ridisegnare l’idea di individualità, tracciare nuovi confini dell’idea di famiglia che ormai, così com’è, è tossica. Le scuole rinforzino le palizzate attorno al corpo e alla mente delle ragazze etero e insegnino ai ragazzi a costruirsi nuovi sostegni con i quali ridisegnarsi ruoli: non più capifamiglia, non più decisori, non più costretti a dimostrare di riuscire sempre. Bisogna farlo nelle famiglie dove ancora troppi ruoli sono definiti da posizioni a tavola, da permessi di uscita e educazione diversa per maschi e per femmine, da gestione diversa della famiglia e della vita. Forse è ora che lo faccia anche la Chiesa. E forse è ora che lo si faccia in pubblico.

Le nostre comunità hanno il mormorio facile, ma l’opinione pubblica è inesistente. La critica pronta e la proposta introvabile. L’indice puntato solo sugli errori degli altri e se al riparo, dietro le proprie finestre, mai apertamente. Chiedersi ossessivamente degli episodi precedenti a quello fatale, dei rapporti privati di Ilaria e Antonio, di rispettivi desideri e motivazioni non serve a nulla.  Serve parlare, invece, della dimensione sociale, del concetto di famiglia e di rapporto. Serve sì: per allenarsi a cogliere allarmi e segni di queste situazioni che potrebbero esserci intorno. Ecco la funzione del ricordo.

Il ricordo non basta se non a chi deve lenire il dolore personale. Il ricordo collettivo richiede un richiamo in causa, a che fare con la riflessione su cosa si possa fare perché un ricordo resti appunto tale. La psicoterapia di coppia, ad esempio, resta un tabù nelle nostre comunità. Associata a malattie o disturbi strani invece che a normali percorsi di approfondimento. Chiedere aiuto significa dimostrarsi deboli, in una cultura grondante di machismo e incapace di piangere. Incapace anche solo di parlare. Bisognerebbe, certo, poi dibattere anche sulla possibilità di accedere a questi servizi… bisognerebbe fare tante cose.

Era necessario scrivere per ripetere la parola femminicidio. Ché con i fantasmi occorre farci i conti, che si voglia o no. Perché quella parola è giusto che si imprima nel nostro tempo complice e non resti solo sul corpo innocente di Ilaria. Perché quella parola interroghi questo silenzio vile. Che queste righe, questo foglio si posi leggero sui loro corpi, ma sia macigno sui nostri. Queste domande, infatti, a loro sono ormai inutili o le risposte non sono state convincenti, mentre per noi sono urgenti.