Senza Cosenza (di Tomaso Montanari)

Senza Cosenza

di Tomaso Montanari

 

«In un punto mi dà grandissimo piacere, per la cognizione di cosa tanto eccellente, e grandissimo dolore, vedendo quasi il cadavere di quella nobil patria»: le parole che nel 1519 Raffaello dedica alla contemplazione delle rovine di Roma sono perfette per descrivere anche lo strazio di ogni ritorno a Cosenza.

La città vecchia, che culmina nella splendida cattedrale, è ancora in gran parte disabitata. Con le assi incrociate e inchiodate sulle porte, come in una città bombardata o decimata da una pestilenza. E il corpo urbano monumentale si sbriciola: crollo dopo crollo. Qualche mese fa si è staccato l’ennesimo balcone, per fortuna senza uccidere nessuno: quasi una risposta alla visita del ministro per i Beni Culturali, che a gennaio era stato a visitare il centro e a incontrare i cittadini, guidato dal presidente dell’antimafia Nicola Morra, che a Cosenza è di casa, e dalla senatrice e archeologa calabrese Margherita Corrado.

Una visita che non è servita a molto: la città storica, in posizione naturale ineguagliabile – come appesa tra il Busento, i colli e il Castello fridericiano – versa sempre tra la vita e la morte, e nulla sembra capace di destarla dall’agonia. Per amara ironia, il ciclone giudiziario che potrebbe liberare la città dal suo sindaco-padrone Mario Occhiuto investe anche il fantomatico, e vagamente jettatorio, Museo di Alarico, questa scatola piena di vento che da anni funziona da arma di distrazione di massa: veicolando il dibattito e le energie lontanissimo dal centro del problema, che è invece il nesso tra le pietre storiche e il popolo che non c’è.

Occhiuto, da parte sua, una strategia ce l’avrebbe, visto che nel 2017 ha speso la bellezza di 384.768,87 euro per il centro: peccato che ad esser finanziati non fossero restauri, ma demolizioni. Già, le ruspe si sono portate via vari palazzi di isolati settecenteschi nell’indifferenza pressoché generale (se si esclude la voce dell’archeologo Battista Sangineto, che da anni si batte come un leone per la città e la sua storia): un modo spiccio per mettere “in sicurezza” il centro, e magari far posto a nuove costruzioni.

E ora che sono arrivati i soldi veri – novanta milioni di euro di fondi CIPE – il punto è come spenderli: con quali priorità, con quale credibilità. Con quale progetto di città. Perché l’apertura di alcuni coraggiosi negozi, i caffè sul corso Telesio con la loro musica alta fino a notte (ascoltarli è un’esperienza estraniante, che ricorda così tanto l’Aquila: quasi che le vibrazioni delle casse avessero il potere di scacciare i fantasmi della solitudine e dell’abbandono), l’apertura in pieno centro della sede della Fondazione del Premio Sila sono tutti piccoli segnali di futuro. Ma è chiaro che non basteranno, e non basterà nemmeno restaurare gli edifici pubblici: la sfida è ricostruire il tessuto abitativo, e riportarci i cittadini.

Cosenza come l’Aquila, o come Venezia: città colpite da catastrofi diverse, ma che potrebbero essere salvate nello stesso modo, cioè con uno straccio di visione. Con la consapevolezza che sono la presenza di servizi e la garanzia di una seppur minima vivibilità quotidiana a creare le condizioni per un ripopolamento.

Come sempre, esiste un gruppo di cittadini consapevoli, che avrebbe ben chiare le strategie e le priorità: associazioni come “Prima che tutto crolli” (mai nome fu più azzeccato), Civica Amica (che si batte da anni perché la Biblioteca Civica possa tornare a vivere e a svolgere il suo ruolo di traino culturale della città) e il Comitato Piazza Piccola. Ma alle iniziative dal basso nelle quali i cittadini chiedono di decidere il futuro insieme agli amministratori, questi ultimi sistematicamente non si presentano. Tanto da far perfino pensare che forse è meglio che quei 90 milioni rimangano a Roma: perché in una città che è riuscita a buttare 20 milioni in un lunare ponte di Calatrava che collega il niente al nulla (mentre altri 40 milioni serviranno alle opere di urbanizzazione), solo san Francesco di Paola in persona potrebbe immaginare tutti i modi in cui quel denaro finirebbe con l’essere sprecato, rubato, giocato contro il futuro.

Ma basterebbe poco: basterebbe prendere questa lucidissima analisi del Comitato Piazza Piccola per avere già tutte le linee di spesa di quei benedetti 90 milioni: «Ravvisiamo anche la mancanza di politiche economiche e sociali ad ampio raggio, capaci di ridare dignità ed emancipazione a tutti quei residenti che vivono in condizioni precarie e tese a rendere il territorio un’occasione di sviluppo nel rispetto della sua storia.

Per contrastare questa situazione il comitato si è adoperato nella costruzione di una rete fra diverse realtà sociali agendo su diversi aspetti: ne sono conseguenza un lavoro d’inchiesta realizzato in maniera autonoma dalla associazione “Pangea” che ha dato vita ad una mappatura di tutti i fabbricati del centro storico che presentano fragilità strutturali redigendo delle schede tecniche sullo stato attuale dei fabbricati classificandoli in base al grado di rischio restituendo così una visione complessiva dello stato di salute del centro storico; la creazione di un ambulatorio medico e di ascolto psicologico capace di sopperire di una sanità pubblica sempre più allo sfascio; il coordinamento sinergico fra diverse realtà che operano e garantiscono l’accompagnamento scolastico, l’interazione famiglie-scuole, doposcuola e attività ricreative e ludiche per bambini e adolescenti; apertura di sportelli di sostegno sociale, sostegno al lavoro, e di supporto alle famiglie riguardo le questioni carcerarie; organizzazione di eventi di carattere culturale e artistico coinvolgendo il quartiere».

Come dire che salvare la città vuol dire salvare la democrazia: ed è proprio per questo che a Cosenza si gioca il futuro di tutti.