Trivellate per la Patria!

(Fabio Savelli – il Corriere della Sera) – L’Italia è seduta su un patrimonio di almeno 35-40 miliardi di metri cubi di gas, conteso con la Croazia che invece estrae metano ed esporta a prezzi da capogiro in Europa. Più della quota di importazioni che l’anno scorso è arrivata da Mosca e che ora si è costretti a ridurre (e ad azzerare in un paio di anni). Riserve scoperte in gran parte negli anni ’80 ma imprigionate sotto i fondali dell’alto Adriatico – tra il Veneto e la Romagna – e nel Canale di Sicilia, soprattutto al largo di Gela.

Giacimenti ostaggio di divieti, bocciati anche da un referendum (che mancò il quorum) nel 2016. Sepolti dalle invettive dei Comitati, vittime di mancate autorizzazioni e di scarsi investimenti perché privi di garanzie di remunerazione, travolti da polemiche infinite per l’impatto ambientale delle trivellazioni con i pericoli di un progressivo abbassamento dei fondali, fenomeno chiamato subsidenza, su cui vigilare.

Ora il governo corre ai ripari tentando di spingere la produzione nazionale di gas crollata nel 2021 ai livelli del 1954. Nell’emendamento al decreto Aiuti-ter l’esecutivo prevede due miliardi di metri cubi di gas destinati alle aziende ad alto consumo di metano. Se ne contano circa 150 in una lista già compilata da Confindustria recepita dal ministero per la Transizione ecologica.

Gas distribuito, secondo un meccanismo di aste coordinato dal Gse, il gestore per i servizi energetici, a prezzi calmierati. In una forchetta tra i 50 e i 100 euro a megawattora, un valore più basso di quello attuale del Psv, circa 153 euro, parametro di riferimento per il mercato italiano. «Mettiamo così in sicurezza il tessuto produttivo e ci rendiamo più indipendenti dalle importazioni di gas», ha detto ieri la premier Giorgia Meloni. Il governo è pronto a garantire, già da gennaio e fino al 2024, una prima fetta di forniture (il 75% dei volumi potenziali). Aprendo uno spiraglio, seppur minimo e delicato dal punto di vista politico, alle estrazioni nell’Alto Adriatico. Una porzione interdetta da 30 anni.

Che corrisponde all’estremità più a sud, tra il 45° parallelo e il parallelo passante per la foce del ramo di Goro del fiume Po. Dunque al largo di Rovigo dove già insiste il rigassificatore Adriatic Lng. A poca distanza dalla laguna di Venezia, area che però è stata esclusa per il rischio di abbassamento dei fondali, su cui pendono i maggiori interrogativi di impatto ambientale.

Una scelta che modifica il piano regolatore che disciplina le estrazioni di idrocarburi in Italia riducendo la distanza dalla costa a 9 miglia dalle attuali 12. Lo consente – ed è l’altro vincolo – solo per giacimenti con un potenziale superiore ai 500 milioni di metri cubi. L’ipotesi è quella del coinvolgimento in questa porzione di mare dell’Eni in consorzio con altri operatori, tra cui Energean, quotata a Londra e Tel Aviv.

Fonti del gruppo del cane a sei zampe fanno sapere che «non appena acquisiremo tutti gli elementi di dettaglio valuteremo la quantità di produzione di gas che potremo mettere a disposizione tra Adriatico e Canale di Sicilia». Nel decreto approvato dal Consiglio dei ministri si legge che tra i «5 permessi interessati dall’intervento di modifica» c’è n’è uno «al largo di Brindisi» e «un altro a largo di Gela e a ridosso della concessione di “Argo e Cassiopea” dell’Eni» la cui attività estrattiva è prevista dal 2024 e vale 10 miliardi di metri cubi. È certo che non mancheranno le polemiche e i ricorsi.

Il presidente del Veneto, Luca Zaia, sta studiando in queste ore il testo governativo, perché sa di maneggiare una patata bollente, A febbraio scorso, nei giorni dell’invasione dell’Ucraina, aveva ventilato la possibilità di nuove estrazioni definendole però un «palliativo» rispetto al fabbisogno del Paese, che oscilla tra i 73 e i 76 miliardi di metri cubi all’anno. Ma la strada per l’indipendenza energetica passa anche da qui considerando che fino a venti anni fa si estraevano dieci volte i volumi attuali e la quota di import dalla Russia era inferiore della metà.

Secondo un’analisi pubblicata ad aprile da Assorisorse, delle 108 concessioni relative al gas attive ne permangono solo 52, di cui 31 «soggette a vincoli». I produttori in questi anni a causa dell’incertezza hanno preferito non investire. I giacimenti fermi però perdono ogni anno il 15% di capacità. E lo Stato, mentre spinge sulle trivelle, ha appena fatto ricorso contro l’arbitrato internazionale che ha condannato a 190 milioni di danni l’Italia per lo stop imposto alla compagnia Rockhopper, nel 2016, al giacimento petrolifero Ombrina, nell’Adriatico di fronte a Ortona.