Catanzaro, l’ombra dei servizi segreti sulla guerra tra procure: il ruolo dell’agente Marco Mancini

Marco Mancini è un agente segreto controverso ma che sta smuovendo anche le montagne per arrivare ai vertici degli “spioni”. Poco più di un anno fa l’ha visto tutta Italia a colloquio nell’autogrill di Fiano Romano con Renzi e successivamente abbiamo anche saputo che quell’incontro lo ha favorito Nicola Gratteri. Mancini ha 60 anni, è stato più volte attenzionato e finanche arrestato per vicende tutt’altro che chiarite ma comunque “apparate” come diciamo in Calabria. L’ormai ex procuratore generale della Repubblica presso la corte d’Appello di Catanzaro Otello Lupacchini, in quel momento storico e politico, era uno dei suoi maggiori nemici perché gli remava contro ma Mancini ha avuto un ottimo asso nella manica da giocarsi perché ha un grande feeling – oltre che con Matteo Renzi – anche con Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica di Catanzaro, da tempo in guerra, anzi in faida con Lupacchini. Ed uscito “vittorioso” dalla querelle perché il Csm ha dato ragione a lui e ha spedito Lupacchini a Torino… E poi – lo ribadiamo – Repubblica ha rivelato a tutta l’Italia che quel faccia a faccia all’autogrill è stato propiziato proprio da Gratteri (http://www.iacchite.blog/babbi-e-spie-repubblica-rivela-fu-gratteri-a-telefonare-a-renzi-per-fargli-incontrare-mancini/).

Mancini aspirava a risalire la cresta cavalcando l’onda nell’ambito dei servizi di sicurezza nazionali. Il suo piano era semplice: accusare, trovare e magari anche inventare prove contro il procuratore Lupacchini e i procuratori di Paola e Castrovillari, Bruni e Facciolla, notoriamente i suoi più stretti collaboratori. Sono loro che avrebbero impedito la sua ulteriore scalata ai vertici dei servizi segreti italiani. Ed è proprio per questo – si dice negli ambienti che contano – che anche il pessimo presidente dell’Antimafia Nicola Morra, notoriamente infiltrato dal sistema dentro il M5s, abbia decisamente virato verso Gratteri, tacciando di “corruzione” i suoi avversari. Capirai da che pulpito arriva la predica… Mentre Gratteri si “spende” per l’amico spione per fargli ottenere quel posto che desidera con tutte le sue forze… Un trionfo!

Il maggiore Gerardo Lardieri

L’agente segreto Marco Mancini, oltre che essere amico di Gratteri, è soprattutto sodale del suo fedelissimo Gerardo Lardieri, recentemente nominato tra le polemiche capo dell’aliquota dei carabinieri alla procura di Catanzaro (http://www.iacchite.blog/catanzaro-la-grande-scalata-di-lardieri-il-fedelissimo-di-gratteri-che-ha-smascherato-il-maresciallo/) e del generale Paticchio, comandante dei carabinieri della Legione Calabria fino a poche settimane fa. Dunque, non è certo eresia affermare che c’è l’ombra dei servizi segreti nella guerra tra le procure del distretto di Catanzaro. Non serviva un profeta o uno scienziato per capirlo, suvvia… Del resto, Marco Mancini è uno di loro, sì insomma è partito proprio dai carabinieri, dal basso. Agli inizi degli anni ’80 era un brigadiere dei carabinieri, è da lì che è partita la sua scalata con annessi alti e bassi.

Il nome di Marco Mancini è tornato alla ribalta con l’avvento del governo gialloverde nonostante le due grosse grane nelle quali è incappato, una dozzina d’anni fa, come il rapimento dell’imam Abu Omar e i dossieraggi Pirelli-Telecom, vicende dalle quali – come accennavamo – è uscito giudiziariamente illeso e immacolato dopo essere stato arrestato per via di un miracoloso “Segreto di Stato”.

L’agente segreto Marco Mancini è fresco di nomina ai vertici amministrativi del DIS, ossia il Dipartimento di Informazioni per la Sicurezza, al cui vertice è stato nominato dal governo gialloverde – il 22 novembre 2018 – Gennaro Vecchione, i cui predecessori sono dei pezzi da novanta della nostra nomenklatura: l’ex capo della Polizia Alessandro Pansa e l’ambasciatore Giampiero Massolo, in predicato per la prima poltrona alla Farnesina nel totoministri del governo M5s-Lega. E molti media di grido tra i quali La Repubblica hanno avanzato qualche ipotesi, tutta da verificare, su chi verrà prossimamente promosso a vicedirettore. Tra i papabili circolava proprio il nome dell’agente segreto Marco Mancini, anche perché – a prescindere dal partito che sta nelle stanze dei bottoni – i nomi degli “spioni” sempre quelli sono. Col passare dei mesi si sono appresi maggiori particolari sulla vicenda ed ecco cosa scriveva l’allora parlamentare del M5s ma anche giornalista Gianluigi Paragone sul suo sito “Il Paragone”.

“… Qualcuno nella maggioranza giallorossa vuole Marco Mancini ai vertici dell’Aise, come vice del nuovo direttore Giovanni Caravelli. Un nome chiacchierato quello di Mancini, a differenza di quello di Caravelli, Generale di corpo d’armata dell’esercito che approda alla poltrona più alta dell’Aise dopo una lunga e apprezzata carriera nei servizi di intelligence. Prima di entrare all’Aise, dove era vice del direttore uscente Luciano Carta, Caravelli ha lavorato nel reparto informazioni e sicurezza dello Stato maggiore della Difesa.

L’Aise è la costola del Dis, il Dipartimento delle informazioni di sicurezza, che si occupa della “sicurezza esterna” e che ha preso il posto del Sismi. E lui, Marco Mancini, ricordiamolo, 60 anni, ex carabiniere nella sezione speciale del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, dal 1984 nel Sismi ci ha vissuto da protagonista. Si è costruito una carriera trentennale, costellata di successi e promozioni, fino a diventarne per un lungo periodo il “numero due”, nell’era di Nicolò Pollari. Ma anche e soprattutto di episodi oscuri. Perché, nonostante il suo passato opaco, qualcuno nella maggioranza di governo vuole Mancini nella cabina di comando dei servizi segreti?”. A questo punto, non è difficile ricostruire le tappe salienti della “scalata” di Mancini. Con importanti propaggini anche nella Calabria di Gratteri.

LE SPIATE DI RIGOPIANO 

Giampiero Massolo. Sopra, Marco Mancini

Eppure, dopo la importante nomina al top del Dis, Mancini era stato tirato in ballo nella vicenda di Rigopiano. Nel corso del processo, infatti, è stato interrogato il dirigente al ministero dello Sviluppo Economico Giovanni Savini, che nel corso del 2015 fu aggregato come dirigente alla Protezione civile. Entrò in rotta di collisione, Savini, con il presidente della Regione Abruzzo, Luciano D’Alfonso, il quale – secondo il racconto di Savini davanti ai giudici – si vantava dell’amicizia con un importante 007, Mancini appunto. “D’Alfonso mi ha detto di conoscere bene Mancini – dichiara Savini – noto alla cronache per essere un vertice dei servizi segreti e che, tramite Mancini, era nella disponibilità delle mie intercettazioni”.

Così infatti spiega ai giudici Savini: “Proprio nei giorni terminali del mio incarico, ho ragione di ritenere che D’Alfonso ascoltasse le mie telefonate, perchè mi sono state da lui (D’Alfonso, ndr) riferite alcune affermazioni che posso aver fatto solo al telefono e solo con mia moglie”. Una torbida storia, per la quale però Mancini non è indagato né inquisito. Almeno per ora. E che andavano ad aggiungersi a quelle precedenti, già di per se poco chiare.

Ma non è ancora arrivato il momento di analizzarle, prima vediamo di approfondire il rapporto tra l’ex carabiniere e ora agente segreto Marco Mancini, il suo amico calabrese Gerardo Lardieri, il fedelissimo di Gratteri e il generale Paticchio.C’è chi giura di aver visto lo strano quartetto camminare insieme, sia a Cosenza, sia sul corso principale di Catanzaro, per incontri organizzati al fine di individuare qualche accusa depistante da divulgare a mezzo stampa o da innescare per far nascere procedimenti penali presso le autorità giudiziarie competenti, sui magistrati del distretto di Catanzaro Lupacchini, Bruni, Facciolla. Dev’essere in questo contesto che Gennaro Lardieri è stato messo in condizione di “beccare” il maresciallo dei Carabinieri Forestale Carmine Greco, amico di Facciolla, arrestato nell’estate del 2018 e scarcerato da poco per essere destinato ai domiciliari. Un asso nella manica non indifferente, grazie al quale sono state scongiurate un sacco di magagne da parte di carabinieri (anche ex) “infedeli” che avrebbero potuto provocare disastri per questa parte della barricata nella faida senza quartiere che coinvolge inevitabilmente anche i servizi segreti (http://www.iacchite.blog/catanzaro-tutta-la-verita-sullarresto-del-maresciallo-greco/).

I servizi deviati, nello specifico, coloro che al momento sono impegnati nella creazione di tale disegno, per la maggior parte sono provenienti dall’Arma dei carabinieri, gruppo già collaudato per la cattura di noti latitanti in campo internazionale. Latitanti arrestati attraverso attività tecniche disposte ed autorizzate all’epoca dei fatti da Gratteri, quando era in servizio alla Dda di Reggio Calabria.Ma nonostante la localizzazione dei pericolosi latitanti avvenisse attraverso le intercettazioni, i pedinamenti e le osservazioni, questi servitori dello Stato dolosamente ritardavano la cattura degli stessi fino a quando il Mancini non deliberasse, tramite fondi neri del servizio di sicurezza attraverso una cosiddetta “velina”, che indicava l’esatta posizione ed il rifugio dei latitanti. La lauta e milionaria ricompensa, per fonti confidenziali, veniva poi spartita tra ufficiali dei carabinieri ed investigatori delegati alla cattura. Vedasi parcella e successivo litigio tra i carabinieri del reparto elitrasportato Cacciatori Calabria, con riferimento alla cattura di Giuseppe Morabito alias “Tiradritto”, localizzato da giorni, attraverso intercettazioni e servizi di polizia giudiziaria ma non arrestato prima dell’arrivo della somma ingente di denaro per la presunta fonte confidenziale.
Ancora, è facilmente riscontrabile che la cattura di Pasquale Condello detto “ il Supremo”, è costata al Ministero dell’Interno circa 5 milioni di euro, mentre lo stesso era già stato localizzato da giorni attraverso un sistema di GPS istallato nel casco da motociclista del genero del predetto “Supremo”.

Ma torniamo a Marco Mancini. Questo che segue è un articolo del Corriere della Sera del 6 luglio 2006 firmato da Guido Olimpio.È il 5 marzo 2005. Giuliana Sgrena scende dal jet dei servizi segreti a Ciampino. È finalmente in Italia dopo il lungo sequestro in Iraq. A sorreggerla sulla scaletta compare un uomo dal volto abbronzato – lo è sempre – e con un giubbotto nero. «Guarda, Marco Mancini si è messo a fare l’infermiere», commentano i colleghi del Sismi vedendo il capo della Prima Divisione esporsi alle telecamere. Ma non poteva mancare, era un modo per essere «presente» agli occhi del governo e dell’opposizione. Trasversale, con una grande rete di rapporti e conoscenze che gli ha permesso una incredibile carriera… La storia di Mancini, a prima vista, assomiglia a quelle storie americane, con l’agente che diventa sceriffo della città. Lui parte dal basso. Agli inizi degli anni ’80 era un brigadiere dei carabinieri, come il suo «gemello», l’amico Giuliano Tavaroli, poi diventato responsabile della sicurezza Telecom (carica lasciata pochi mesi fa in seguito ad un’indagine sulle intercettazioni).

Lavorano nella squadra del famoso Bonaventura nella lotta alle Br. Sono bravi – dicono i colleghi – e vogliono fare carriera in fretta. È Mancini a compiere il primo salto. Entra nel Sismi – attorno all’84, ufficio di Bologna – e ritrova Bonaventura, nel frattempo diventato responsabile della nuova Divisione anti-crimine. All’ombra dell’ufficiale Mancini cresce, smania e non abbandona mai il rapporto di ferro con Tavaroli. L’ex brigadiere attende il momento propizio. Che arriva quando Bonaventura lascia la carica di capo della Prima Divisione, la più importante del Sismi, quella che si occupa del controspionaggio. La carica passa ad un altro ufficiale dei carabinieri, Gustavo Pignero, arrestato nel blitz di ieri, un veterano. Ha partecipato – nel 1974 – all’infiltrazione tra le Br del famoso Frate Mitra. Al Sismi sostengono che da quel momento Mancini crea il suo team eliminando i fedelissimi di Bonaventura e «controllando» Pignero.

Di fatto prepara il terreno per un nuovo balzo. È infatti responsabile del centro di Bologna e di tutto il Nord Italia. Una posizione strategica. Mancini rinsalda i rapporti con gli americani della Cia – una cooperazione che va avanti da anni – grazie anche all’emergenza terrorismo post 11 settembre. La sua strada procede in parallelo a quella di Tavaroli. Poco dietro, più discosto, c’è Emanuele Cipriani, amico fidato e titolare di un’agenzia di investigazioni, finito nell’indagine sulle intercettazioni. Girano voci di dossier su personaggi, spionaggio, fiumi di denaro. È questo misterioso mondo che fa da cornice alla preparazione – nella primavera 2002 – del rapimento di Abu Omar. Mancini forse vuole dimostrare agli americani di essere un buon partner. E la Cia gradisce: un coinvolgimento italiano è l’ideale per costringere Roma a tacere. Nell’agosto 2003, pochi mesi dopo il sequestro dell’imam, Mancini conquista la guida della Prima Divisione mentre Pignero diventa capo reparto. A Forte Braschi, la sede dell’intelligence, sostengono che l’ascesa è dovuta all’intercessione della Cia. L’allora capo dell’agenzia Usa, George Tenet, avrebbe scritto una lettera per sostenere la promozione. Verità o leggenda, Mancini è davvero il numero uno. Quando gira per i corridoi del comando lo segue la «formazione a cuneo». Mancini davanti, quasi sempre vestito casual, gli altri dietro. La guerra in Iraq alza le quotazioni della Divisione. Gli 007 vigilano sul contingente, recuperano ostaggi, pagano riscatti generosi, piangono il sacrificio di Calipari. Mancini si prende spazio e potere con il direttore Pollari che lascia fare fino a pochi mesi fa, malgrado la magistratura incalzi. In molti si chiedono perché.

La morte di Nicola Calipari

Nicola Calipari

Un’altra delle vicende oscure in cui è rimasto invischiato Marco Mancini da capo del controspionaggio militare è quella della morte di Nicola Calipari, suo collega e a capo della divisione ricerche del Sismi fino al 4 marzo 2005, giorno in cui perse la vita in Iraq. Calipari morì perché colpito dai colpi d’arma da fuoco di un militare Usa ad un posto di blocco a Baghdad. Era sull’auto con Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto da lui appena liberata. Quindici anni non sono serviti a portare luce sulla vicenda. Calipari è rimasto vittima degli intrighi tra servizi segreti italiani e Usa. Che coincidenza vero? Ancora una volta in pochi anni dopo il caso Abu Omar.

Calipari era stato arruolato al Sismi da Nicolò Pollari e affidato alle “cure” del suo numero due Marco Mancini. Quel Pollari andato a processo per il rapimento di Abu Omar e accusato da molti, tra cui la vedova Calipari, di una gestione machiavellica ed opaca dei servizi. Nel libro intervista Il mese più lungo scritto a quattro mani con l’ex direttore del Manifesto Gabriele Polo, Rosa Calipari descrive la direzione del Sismi ad opera di Pollari “ambigua, che agiva machiavellicamente su due linee strategiche opposte e alla fine contrapposte, un gioco che costerà la vita a Nicola”.

Sostiene il libro che all’interno del Sismi c’era una divisione netta tra Nicola Calipari, direttore della ricerca del Sismi, e Marco Mancini, capo del controterrorismo, controspionaggio militare e criminalità organizzata transnazionale, su come agire per risolvere il sequestro di Giuliana Sgrena in Iraq. Calipari era a favore della trattativa, opzione invisa agli americani, mentre Mancini era per il blitz. Come racconta la storia passò la linea di Mancini, ma qualcosa nelle comunicazioni tra i servizi italiani ed Usa, ancora una volta, non funzionò. Il motivo resta oscuro, ma certo è che l’ambiguità della gestione Pollari-Mancini fu purtroppo determinante nel causare il tragico epilogo della vicenda.

Ambiguità che proseguì anche nelle ore immediatamente successive alla morte di Calipari. Ai colleghi del direttore della ricerca, racconta il libro della vedova, fu negata da Pollari la possibilità di recarsi in Iraq per recuperare il corpo di Calipari. L’unico che ebbe accesso all’ospedale militare Usa e potè vederne il cadavere fu proprio Marco Mancini. Insomma, un rapporto privilegiato il suo quello con i servizi americani. Proprio come quello con una certa destra politica che lo ha sempre “protetto”. Rosa Calipari, nel suo libro, sostiene che Pollari le confidò che “Mancini gli era stato imposto (come numero due, ndr) dalla politica”, in quanto nel Sismi da molti anni (dal 1984) e perché gradito agli ambienti della destra.

La bomba a Reggio Calabria

C’è un episodio in particolare, ancora una volta inquietante, che descrive in modo ancor più plastico l’ambiguità di Mancini e suoi rapporti con certi ambienti della destra che hanno sempre navigato nell’oscurità. La bomba ritrovata a Reggio Calabria il 6 ottobre 2004, nei bagni di Palazzo San Giorgio, sede dell’amministrazione comunale. Reggio Calabria, città di Nicola Calipari dove l’agente del Sismi aveva iniziato la sua carriera in Polizia.

Reggio Calabria ha una storia di rapporti inquietanti con la destra eversiva. A partire dai moti del 1970 capitanati da Ciccio Franco per passare alle liaisons pericolose delle cosche di ‘ndrangheta con la destra eversiva di Pierluigi Concutelli, tramite il boss di Canolo Totò d’Agostino. Costui, ucciso a Roma nel 1976, era confidente del magistrato Vittorio Occorsio, ucciso nello stesso anno proprio da Concutelli, mentre indagava sui rapporti tra Ordine Nuovo e ‘ndrangheta reggina. D’Agostino, secondo le successive indagini, avrebbe messo al corrente il giudice riguardo a un flusso di denaro arrivato dai sequestri e convogliato in Calabria per essere utilizzato in azioni eversive e per finanziare omicidi eccellenti.

Torniamo al 2004 e alla bomba a Palazzo San Giorgio. L’ordigno fu ritrovato grazie ad una segnalazione del Sismi a firma di Marco Mancini, che pure, scrive il Corriere della Calabria, “da operativo non era mai sceso prima più a sud di Bologna”. Il ritrovamento di quella bomba cambiò di molto lo scenario della città dello stretto, alle prese con una transizione politica che vedeva il declino di Giuseppe Scopelliti. Il sindaco della destra più amato e popolare da decenni vedeva la sua popolarità ed il suo consenso politico incrinati dalle prime inchieste giudiziarie.

Ci sono due fatti “singolari” in questa vicenda, che se legati fanno pensare a qualche trama oscura, da “burattinai”. La bomba fatta ritrovare a Palazzo San Giorgio era priva di innesco, non poteva recare dunque alcun danno. Proprio il giorno prima del rinvenimento dell’ordigno, il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza riunito a Reggio Calabria, aveva disposto l’assegnazione di scorta ed auto blindata al sindaco Peppe Scopelliti, perché giudicato “a rischio attentato”. Una semplice coincidenza o cos’altro?

IL RAPIMENTO ABU OMAR

Ricapitolando: pesano come macigni, dunque, sotto il profilo deontologico, professionale e morale le due “assoluzioni” ottenute da Marco Mancini grazie all’apposizione del “Segreto di Stato”, un vero salvagente per pochi baciati dalla fortuna.Cominciamo dal giallo del rapimento dell’imam Abu Omar. Ce lo racconta La Voce delle Voci.

Il 5 giugno 2006 Mancini viene arrestato per ordine della procura di Milano, pm Armando Spataro. Pochi mesi dopo, a febbraio 2007, arriva il rinvio a giudizio per una serie di uomini dei servizi segreti, tra cui spicca il numero uno, Nicolò Pollari. Il processo inizia a fine anno, ottobre 2010 e al termine la richiesta di Spataro è durissima: 10 anni per Mancini, pene da 10 a 13 anni per lo stesso Pollari e altri funzionari dei servizi, nonché per il capocentro della Cia a Milano e suoi collaboratori.

Armando Spataro

Ma ecco la sentenza ‘miracolosa’: “non luogo a procedere” per Pollari e Mancini per via del “Segreto di Stato” che di tanto in tanto interviene per salvare funzionari dei servizi coinvolti in sporche faccende.

Comincia l’incredibile balletto. L’appello conferma il primo grado, non luogo a procedere. Mentre la Cassazione, nel 2012, annulla la sentenza e rimanda il fascicolo allo stesso appello.

Che stavolta cambia opinione, appioppando 10 anni a Pollari e 9 a Mancini!

Ma eccoci alla beffa finale: perchè anche la Cassazione cambia parere e in via definitiva “annulla senza rinvio”, perchè “l‘azione penale non poteva essere perseguita per l’esistenza del Segreto di Stato”. Ai confini della realtà.

Praticamente identico il copione recitato per anni al tribunale di Perugia. Perquisendo la sede dei Servizi a Roma proprio per l’inchiesta Abu Omar, gli inquirenti trovano decine di faldoni zeppi di dossier riguardanti magistrati, giornalisti, alcuni politici, attivisti di associazioni e via di questo passo. Si tratta del lavoro svolto per molti mesi da Pollari e dal suo fido braccio destro, Pio Pompa, per spiare & dossierare decine e decine di persone e organizzazioni ritenute ostili al governo Berlusconi. Tra essi c’è anche la Voce. Comincia una vera odissea giudiziaria, perchè molte parti lese intentano causa e chiedono i danni per un’azione tanto smaccata in barba ad ogni ‘privacy’ e certo non solo.

E quale sarà mai l’esito dopo anni e anni? Tutti innocenti, gli uomini dei Servizi, Pollari e Pompa in prima linea, perchè a proteggerli c’è il “Segreto di Stato”. Pur se è del tutto evidente come la ‘difesa dello stato’ non c’entrasse un bel niente, trattandosi di un ‘privato’ dossieraggio, fatto su privati cittadini con fondi pubblici! Un Segreto di Stato rispettato e applicato da tutti i governi che si sono succeduti negli anni: da Berlusconi a Letta, da Monti a Renzi fino a Gentiloni: vedremo ora cosa farà il premier Giuseppe Conte.

SPIATE & DOSSIERAGGI MADE IN TELECOM

E passiamo al secondo scandalo che ha coinvolto l’inossidabile Mancini.

Dicembre 2006. Non è un felice Natale per Marco Mancini che viene arrestato per una seconda volta nel giro di pochi mesi, stavolta per una pesante vicenda di intercettazioni illegali ai danni di decine e decine di personaggi dell’industria, della politica, perfino dello sport (fra gli spiati Bobo Vieri e Luciano Moggi), e addirittura la stessa moglie Afef di Marco Tronchetti Provera, allora  patron di Telecom e Pirelli. L’accusa è da brividi: associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e alla rivelazione del segreto d’ufficio.

Giuliano Tavaroli

In pratica, all’interno di Telecom viene costituta una cellula di spioni & hacker, per controllare e dossierare i “nemici” di Tronchetti Provera  (prima si parlava di Berlusconi). La compongono, oltre a Mancini, anche l’allora capo della Security di Telecom, Giuliano Tavaroli, e l’investigatore privato Emanuele Cipriani. Una bella band che in pochi mesi raccoglie una montagna di dossier: “una raccolta sistematica di informazioni riservatissime in grado di assicurare fiducia nel gruppo Pirelli-Telecom e quindi stabilità al consorzio delittuoso che fondava sui cospicui fondi aziendali per la security il perno della sua poliedrica e multiforme attività illecita”.

Parole dure come pietre, quelle dei magistrati milanesi.

VIVA IL SEGRETO DI STATO

Al processo, mentre la gran parte degli imputati chiedono il patteggiamento (ad esempio Tavaroli viene condannato a 4 anni e mezzo e 60 mila euro di multa), il solo Mancini invoca il già sperimentato “Segreto di Stato”: Segreto di Stato, stavolta, sui rapporti Sismi-Telecom. Incredibile ma vero: una faccenda di spiate del tutto arci private va a finire nel calderone del “Segreto di Stato”, che val la pena di rammentarlo può essere invocato solo per gravissimi motivi inerenti la sicurezza della nostra nazione.

E stavolta cosa cavolo c’entra, come del resto anche nella vicenda Pollari-dossier?.

Un lasciapassare molto utile sia in primo grado, che in appello e quindi in Cassazione, per Mancini.

Lunghissima, e conclusasi solo poche settimane fa, l’altalena per Tronchetti Provera, che almeno ha avuto il fegato di non ricorrere alla facile prescrizione. Un vero via vai di sentenze: alla fine mister Pirelli ha vinto con un rocambolesco 3 a 2, tre assoluzioni e due condanne. La motivazione? “Poteva non sapere”. Cioè il capo ordina per sé e la sua azienda spiate e dossieraggi ai suoi dipendenti (tali erano Tavaroli, Mancini e Cipriani) “a sua insaputa”. Anche qui, ai confini della realtà.

Al termine delle storie, sorgono spontanei alcuni interrogativi.

Ma che senso ha questo “Segreto di Stato” utilizzato in maniera tanto sconsiderata e accettato fino ad oggi supinamente dalla magistratura e avallato da tutti i governi senza alcuna distinzione di colore politico? Non sarebbe il caso di apportare qualche radicale cambiamento?

Ancora. Non sarebbe il caso che il DIS – come promise e non mantenne Massolo voluto da Renzi su quella poltrona – aprisse i suoi cassetti circa i tanti misteri d’Italia e desecretasse sul serio tante carte ancora avvolte nel mistero?

E poi. Possibile che un personaggio come Mancini, coinvolto in simili vicende, uno 007 che più border line non si può, venga nominato al vertice amministrativo dello strategico Dipartimento Informazioni per la Sicurezza? Come affidare a Dracula la banca del sangue, si diceva una volta. Staremo a vedere se il governo del “nuovo” batterà un colpo.

Gli “onesti” e gli “elevati” amano gli spioni salvati dal segreto di Stato, perché esaltano la loro “onestà” e agevolano la loro “elevazione”, e con costoro si incontrano (come accade anche ad alcuni noti personaggi che amano indossare, con l’eleganza del nano che ha rubato il mantello al gigante, i panni dell’eroe), ostentando “disinteressata” consuetudine di frequentazione, se non addirittura “amicizia“, in luoghi “discreti” e notoriamente “riservati”, come la Galleria Sordi a Roma (Tiziana Trevisson)

Eh sì, perché, come tutti sappiamo, o gialloverde o giallorosso, o la grande ammucchiata, per queste vicende, non c’è molta differenza, anzi diciamo pure nessuna… E dall’esito della scalata dello “spione” Mancini potrebbe dipendere anche il futuro, politico e giudiziario, della Calabria. Dev’essere per questo che è andato a finire dritto dritto anche a Report. In bocca al lupo a tutti!