Cosa insegnano le piazze del Sud (di Saverio Di Giorno)

di Saverio Di Giorno

Di ritorno da una delle decine di manifestazioni quello che si prova è fastidio. Almeno per chi qualche volta è sceso in piazza. Fastidio. Come se mancasse qualcosa tra i pensieri, le richieste, le rivendicazioni non filasse e mancasse qualcosa. Saranno le piazze o quell’operaio che fischia dietro la finestra sull’impalcatura mentre lavora? Il dubbio è che non sia la maniera giusta di chiedere cose sacrosante.

Ma l’errore non sta nello scendere in piazza o nel pericolo contagio. Una piazza non è più pericolosa di un centro commerciale o di una fabbrica o di quel cantiere dove questo operaio continua a fischiettare infischiandosene che qualcuno sta provando a fare un’analisi e dire qualcosa. L’errore sta nella composizione: non sono piazze eterogenee come si è detto, sono piazze di settore. E la correzione di questo errore viene da Sud. Ancora una volta il Sud ha colto il cuore del problema.

Sia chiaro: non che le piazze ultimamente siano state molto partecipate o capaci di tirar dentro questa cosa strana chiamata società civile. Anzi proprio su temi enormi come i cambiamenti climatici nelle piazze c’erano solo studenti. Giovani e giovanissimi. Come se fosse un tema di nicchia mentre era un tema generale. Una battaglia che doveva essere nervosa, tenace, diretta al sistema produttivo si è disinnescata non cogliendo la questione nell’insieme. Questo è quello che rischiamo anche stavolta se si continua a chiedere fondi, aiuti e riaperture.

Le piazze del clima, con quelle della pandemia peccano di visione di insieme. E peccano perché sono appunto di settore. Vedono individui diversissimi, ma separati. A Bologna, a Ferrara scendono in piazza i ristoratori, federalberghi, i fieristi, poi qualche ora più tardi altrove i rider, a Napoli invece c’erano i dipendenti licenziati, i piccoli commercianti, e i ballerini del San Carlo, a Cosenza si è parlato anche e per la prima volta (e finalmente!) di sanità. A Roma tra gli altri i teatranti, a Torino gli anarchici hanno attaccato Gucci, a Verona i fascisti hanno fatto i soliti fascisti. Tutti accomunati da: tu ci chiudi, tu ci paghi! Ma tutte piazze specializzate.

Questo cosa vuol dire: avuta una quantità sufficiente di fondi è tutto apposto? Il dilemma tra economia e sanità si risolve magicamente. Fare al governo un’obiezione del genere (cioè che non si sono previsti fondi) è giusto, ma estremamente debole. Il governo ha gioco facile nel giustificarsi con necessità, ristrettezze e qualche manovra. Bisognerebbe spingere il discorso un po’ più in là. Scalpellare via come fa quell’operaio che intanto continua a fischiare mentre sotto i ristoratori apparecchiano le strade.

Bisognerebbe dire che un sistema economico che voglia dirsi sano non entra in contrapposizione con la sanità. Che non ci può essere scelta tra economia e sanità. Che questa scelta amletica non la pone la pandemia, ma il sistema produttivo infatti è sempre esistita: chiedete agli operai dell’ILVA che la mascherina l’hanno sempre usata e scelgono tra economia e sanità, agli abitanti di Lazzaro in Calabria con una discarica che brucia da tre mesi se non conoscevano già questa scelta. Chiedetelo ai braccianti, ai rider durante la prima ondata e anche agli operai delle fabbriche padane dove si è trasmesso il virus cosa ha scelto il governo tra sanità ed economia. Questa situazione prima solo di categorie, la pandemia l’ha solo generalizzata. Ma il governo, anzi i governi hanno sempre agito in questo modo. Non c’è differenza tra sanità ed economia. Non c’è perché la sanità è stata ridotta ad un’azienda di precari che si fanno concorrenza tra reparti, che scelgono gli interventi più remunerativi.

Si dica invece al governo di non usare l’alibi di dover bloccare il paese per privilegiare la salute. Questa si sarebbe privilegiata investendo sui trasporti pubblici per i quali si attendono interventi da vent’anni, si sarebbe privilegiata proteggendo la sanità e potenziando i posti letto. Certo, ormai bisogna tamponare, ma in piazza non si chieda una piccola soluzione per arrivare a domani, si pongano i temi radicali. Sanità pubblica, Trasporti, Patrimoniale (anche per avere fondi e togliere alibi ai piccoli imprenditori che evadono). Per porre questi temi però non si possono avere piazze settoriali che vogliono solo veder garantiti i loro interessi. Occorre che si capisca per una volta che il malessere dei ristoratori è connesso a quello dei rider, a quello della filiera fino ai braccianti. Che come sono stati trattati gli operatori della cultura possono essere sacrificati altri nello stesso sistema produttivo perverso.

Chi dovrebbe porre questi temi? Studenti, intellettuali, analisti. Ma molti hanno già minimizzato e banalizzato questa gente, come al solito. E allora non resta che guardare alle persone che dalle periferie e proprio perché periferiche hanno una visione ampia del problema e partire dai temi di Napoli, Cosenza, Palermo. Piazze che hanno chiesto più Stato e non solo più soldi.

L’operaio fuori dalla finestra non si è fermato un attimo di fischiare. Quasi disinteressato, disilluso. Fischia come un uccello intrappolato in quella gabbia che è l’impalcatura dove lui oltre al virus deve stare attento all’attrezzatura di sicurezza che non ha: altro che economia e sanità. Queste cose lui le racconta meglio con quel fischio. C’è un detto in Calabria: u picciunu chipp non creda u dijun. L’uccello sazio, non crede a quello digiuno. Sono piazze destinate a non incontrarsi. Lui lo sa e fischia.