Mafia-stato e Calabria. Voti, gas, petrolio e il figlio di Dell’Utri a Caracas nel covo dei Piromalli

Da tempo pubblichiamo gli stralci del libro-inchiesta sulla ‘ndrangheta “Porto Franco: politici, manager e spioni nella Repubblica della ‘ndrangheta” di Francesco Forgione. Il libro è ritornato di scottante attualità per le ultime rivelazioni riguardanti il legame tra la ‘ndrangheta, la politica e il Venezuela, del quale Forgione scrisse diffusamente. 

Dall’omicidio di Salvatore Pellegrino, detto uomo mitra, gli inquirenti hanno scoperto attraverso le intercettazioni cose incredibili sulla famiglia Piromalli. Nel 1975 l’allora ministro del Bilancio Giulio Andreotti è presente a Gioia Tauro per la posa della prima pietra del V Centro Siderurgico che non vedrà mai la luce ma soprattutto per dare un “riconoscimento ufficiale” ai Piromalli e insieme a lui c’è un personaggio incredibile, Aldo Miccichè, scomparso poco più di due anni fa, il cui percorso è a dir poco rocambolesco e porta direttamente alla politica e al rapporto perverso mafia-stato. A Miccichè è stata commissionata una missione quasi impossibile dalla famiglia Piromalli della quale è diretta espressione: far togliere il carcere duro a don Peppino. Dopo il fallimento dei contatti con il ministro Mastella, incasinato per i problemi giudiziari suoi e della sua famiglia, Miccichè parte alla carica con quelli dell’Udc. Gentaglia al soldo del potere… Ma è chiaro che bisogna bussare alla porta di Berlusconi e dei suoi scagnozzi. E non solo per il 41 bis… E così i Piromalli incontrano più volte l’alter ego del Cavaliere, il celeberrimo Marcello Dell’Utri. E insieme fanno affari e pianificano l’imminente campagna elettorale del 2008. 

Dalle telefonate tra Aldo Micciché, Marcello Dell’Utri e gli uomini dei Piromalli nei giorni convulsi della scelta delle candidature, si capisce che la politica sta cambiando. Ai candidati degli amici e a quelli degli amici degli amici si aggiungono imprenduitori, faccendieri, intermediatori d’affari. Berlusconi l’ha detto chiaro: il tempo dei funzionari di partito e dei sindacalisti parassiti è finito.

L’Italia ha bisogno della politica e degli uomini del fare. Basta con i governi paralizzati dal Parlamento. Serve un consiglio d’amministrazione del Paese. E chi se ne frega se le liste sono piene di soggetti rinviati a giudizio, riciclatori, generali chiacchierati, ex agenti dei Servizi segreti, esperti in schizzi di fango, corrotti e corruttori. A dire il vero, candidano pure “ballerine” e qualche escort, come le chiamano ora. Ma Aldo Micciché, che è espressione di un potere unico e immutabile, non si scompone. Le escort possono fare da contorno, buone per i festini. Ma la politica vera, quella che per sessant’anni ha fatto la storia d’Italia e l’ha difesa dai comunisti e dai terroristi, non cambia certo per quattro donne in fila che fanno il trenino. Il mondo di Aldo è un altro, ed è lì che ci sono i voti. In Italia e all’estero.

La sua è una filosofia della politica. Preferisce stare in seconda fila. E’ dalle zone d’ombra che il potere si manovra meglio: “… la mia intelligenza è stata sempre una… mai essere avanti. Per carità di Dio, mi hanno offerto presidenze, banche… no, io sono voluto restare lì, alla segreteria politica e alla segreteria organizzativa… perché in effetti la partitocrazia governava l’Italia… e io governavo… Noi la politica la sappiamo fare… che me ne fottevo che non ero eletto al Parlamento!”.

Con Dell’Utri la pensano allo stesso modo. Anche il senatore è sempre stato in ombra. Meglio dire che è stato l’ombra. Senza di lui, prima con Publitalia e poi con i Circoli della libertà, chi glielo costruiva il partito a Berlusconi? E se non fosse stato per quei magistrati comunisti di Palermo, che con quattro pentiti si sono inventati un processo, lui i riflettori non li avrebbe cercati.

All’inizio del 2008, nelle stesse telefonate si parla di candidature e di petrolio, di collegi elettorali e di gas, di incarichi di governo e multinazionali farmaceutiche. Ai due cellulari Micciché e Dell’Utri. In mezzo faccendieri, mafiosi, manager e spioni. Le telefonate arrivano anche durante le sedute del Senato e il latitante, a fine gennaio 2008, può ascoltare in diretta da Palazzo Madama un po’ del dibattito sulla caduta del govermo Prodi.

Il senatore è al centro di un giro di spregiudicate operazioni finanziarie per accaparrarsi una quota del petrolio e del gas venezuelano. L’intermediario con la PDVSA, il colosso petrolifero venezuelano nazionalizzato dal governo di Ugo Chavez, è Aldo Micciché. L’uomo di fiducia dei due in Italia è un giovane barese poco più che trentenne, Massimo De Caro. Il suo nome è quasi sconosciuto. Il triangolo delle telefonate è quotidiano. I traffici e gli affari, da quello che si capisce, vanno avanti da tempo. Solo per un caso quegli sbirri di Gioia Tauro se li sono trovati nelle cuffie.

All’inizio di febbraio del 2008, arriva a Caracas Marco, il figlio di Dell’Utri. E’ ospite di Aldo Micciché. Figuriamoci se il figlio del senatore, che a quel tempo ha già una condanna in primo grado a 9 anni e mezzo di reclusione per mafia, può avere scrupoli a stare a casa di un signore che ha scontato venticinque anni di galera per corruzione, bancarotta e traffici illegali di tutti i tipi. Marco Dell’Utri e Aldo Micciché devono concludere l’acquisto di un centro farmaceutico con centri benessere e istituti di bellezza esclusivi nel cuore di Caracas. Qui al corpo ci tengono. Non per niente il Venezuela è tra i primi Paesi al mondo per numero di interventi di chirurgia estetica e le donne cominciano a rifarsi il seno a sedici anni. Nell’affare c’è pure l’acquisto della licenza di alcune multinazionali per l’importazione in esclusiva di farmaci. Poi ci penseranno loro a piazzarli in tutti i Paesi dell’America latina. Un vero colpo. La cifra, attorno ai 250.000 euro, è abbordabile. Il senatore lo comunica a Micciché: “Senti, mio figlio Marco verrebbe da te la prossima settimana…”.

“… Benissimo… tieni presente che abbiamo bisogno di quella somma per concludere… io posso firmare il compromesso… quando tuo figlio verrà rimarrà a bocca aperta e vedrà tutta la documentazione… mi hai fatto felice”.

“… Mi fa piacere che ti viene a conoscere… è un ragazzo molto sveglio e poi parla lo spagnolo”.

“… Pensa che come minimo incasseremo 13/15 milioni di Bolivar… Ma è una cosa nostra, non voglio che ne sappia nessuno niente… riguarda i nostri figli”. E i figli, si sa, so’ piezz’e core. Dell’Utri, con tutte le inchieste che gira e volta arrivano sempre a lui, ha il timore di essere intercettato. Esorcizza con sarcasmo: “Se ci ascoltano, chissà che cosa pensano”.

“… Pensano che è un’operazione normalissima… tanto ci ascolteranno sicuramente… però i nostri figli hanno il dovere, hanno il diritto… noi, casomai facciamo una fideiussione e i soldi li ricaviamo dalle banche di qua… guarda che sul piano amministrativo penso che so fare qualche cosa…”.

“… Non c’è dubbio su questo”, è il sigillo di fiducia del senatore.

Aldo ha anche un pacchetto di azioni. Le vuole trasferire al senatore e intestarle a suo figlio o al compagno dell’altra sua figlia, Chiara. Piccole cose. Come i pacchetti di titoli della banca del Mercosur, il nuovo mercato comune sudamericano, che si stanno affrettando a comprare. Sempre con l’intermediazione di zio Aldo. L’affare vero è quello del petrolio e del gas. Per portarlo a termine e acquisire le concessioni per l’Europa, hanno costituito una società, la Avelar Energy. Ha sede in Svizzera, ma è di proprietà di uno dei nuovi ricconi partoriti dal fallimento del comunismo sovietico. Si tratta di Viktor Vekselberg. Un uomo chiave del sistema finanziario e di potere messo in piedi dal presidente russo Vladimir Putin.

Il disegno è spregiudicato. Devono comprare petrolio e gas dalla società venezuelana PDVSA, per venderli a Gazprom, dove già con soci prestanome, secondo alcune inchieste, ‘ndrangheta e Cosa nostra avrebbero acquisito quote azionarie. Poi, attraverso il colosso russo, con un gioco di maggiorazione dei prezzi, rivenderanno “energia” a quei fessi dell’Europa. Una storia intrigante e intricata…

Intanto, come guardiano dei loro interessi, Micciché e Dell’Utri piazzano a fianco dell’undicesimo uomo più ricco della Russia, Massimo De Caro. E’ il vicepresidente di Avelar. Un ragazzo dalla carriera contorta ma fulminante. Per Micciché, l’affare “energetico” è anche un’occasione in più per stringere il rapporto politico tra la famiglia di Gioia Tauro e Berlusconi. Del resto, i soldi che lui immetterà nell’operazione, Dell’Utri sa bene da quale parte dell’Italia arrivano.