Alla corte di Berlusconi tutto cambia per restare uguale

(Filippo Ceccarelli – la Repubblica) – Non senza fatica, e all’inizio procedendo un po’ a scossoni, la macchina umana berlusconica è partita e nel presente assoluto della campagna elettorale cerca di regalarsi un pezzettino di futuro.

Macchina umana e non politica, perché dopo tanti anni è quasi impossibile capire quale politica abbia fatto il Cavaliere, a meno di identificarla in lui stesso, nella sua persona fisica, nella sua vita, nella sua maschera talvolta degradatasi in macchietta.

Lo si dice con problematico rispetto, tanto più nel paese della commedia e del melodramma, sia l’una che l’altro posti convenientemente al servizio dell’”arte del far credere” e quindi tali da avergli fatto vincere un record di elezioni (1994, 2001, 2008) salvandolo da altrettante sconfitte. Se non altro per questo s’impone un tot di prudente umiltà dinanzi al fatto, all’apparenza irreale, che da un mesetto in molte stazioni ferroviarie sono in funzione degli schermi che ripropongono pari pari il Berlusca di 28 anni fa oltre all’inno primigenio di Forza Italia. 

A quel tempo l’attuale coordinatore elettorale Cattaneo aveva 14 anni, ma ancora gira l’antico “kit del candidato” con le medesime raccomandazioni pedagogiche destinate ai venditori Fininvest, essere gentili e presentabili, non distrarsi mentre si parla con gli elettori, niente barbe ne tatuaggi.

Nel frattempo riprende smalto, a suo modo, l’icona del fondatore, a partire dal sorriso e dalla calotta incatramata; peccato solo per la voce, ma il doppiopetto è lo stesso, idem la cravatta a pallini, la scrivania con le foto, il repertorio per catturare l’attenzione e farsi voler bene, tik-tok-tak muovendo la testa a mo’ di campana e poi accampando, con il consueto megaloistrionismo, il primato mondiale di visualizzazioni.

S’intende: tutto già visto e stravisto, la parabola edificante “ho fatto tutti i lavori”, l’aneddoto dei manifesti per la Dc nel 1948, con il solito brivido per l’attacco comunista e la fuga da record mondiale; poi la barzelletta autoironica sull’aereo e quell’altra piccantella sui bidet a Gheddafi, il numero galante sul numero telefonico da chiedere alla bella ragazza.

Ecco, prendere o lasciare: sapendo però che ogni volta, come in una fiaba o una leggenda l’intero pacchetto si arricchisce di qualche particolare inedito e fasullo, vedi l’altro giorno un incontro con De Gasperi e il part time come correttore di bozze al Corriere della Sera.

Non si cadrà qui nella retorica del disco rotto, se non altro perché quando un disco rotto continua a girare così a lungo si è in presenza di un miracolo, altra parola tutta sua che prima o poi ci si aspetta verrà fuori, così come un accenno alle zie suore, in numero variabile.

E per davvero non si vorrebbe farla troppo cervellotica, ma l’impressione è che il Berlusconi rimpipirinzito di questa fase si proponga ragionevolmente agli italiani come una loro abitudine; una presenza indispensabile, inconfondibile, insostituibile del paesaggio umano, prima che politico, di un intero popolo mai come oggi in bilico fra il vuoto di qualsiasi prospettiva di lungo periodo e il compiacimento della propria immutabilità.

Già, re Silvione I, anziano e decaduto, ma ancor più patriarca, come veniva da pensare vedendolo presentare con ribalda innocenza l’onorevole fidanzata: «Guardate che bella signora!», per poi incoraggiarla, fra Carlo Dapporto e Luigi XVI: «Dai, su, togliti il mascherino!»- il mascherino!

Come programma: il Ponte sullo Stretto, un milione di alberi, il poliziotto di quartiere, il veterinario gratis, la dentiera e il reddito di cittadinanza «per i nostri genitori e nonni». Quanto tutto cià possa rendere in termini di voti finisce quasi per esulare dal lascito della lunga età berlusconiana.

L’erosione, anche da parte della «signora Meloni», come ha preso a chiamarla dopo che per lui è stata «la Trottola», sembra verosimilmente compiuta. Ma il groviglio storico del berlusconismo resta qualcosa che va ben oltre la vittoria e la sconfitta in un turno elettorale.