Berlusconi è in balia di una guerra tra bande in Forza Italia

(Tommaso Labate – il Corriere della Sera) – «Vuole provocare la nostra scissione», dicono dall’ala dei falchi di Forza Italia, quelli del giro di Licia Ronzulli; quelli accusati di scavare trincee per sabotare la nascita del governo a guida Giorgia Meloni, che sono davanti alla tv alle 19.54 quando sentono dalla voce della presidente del Consiglio in pectore scandire che al foglietto di Berlusconi «mancava un punto, che io non sono ricattabile». «E ora chi glielo va a dire?», confabulano tra di loro riferendosi all’ex premier, che proprio in quei momenti meditava una possibile via d’uscita dallo scontro con la leader di FdI e accarezzava pure la possibilità «di usare le prossime ore e i prossimi giorni per chiarirci», forse anche per chiedere scusa.

Per Berlusconi, per FI, per tutti, insomma, il giorno due della legislatura è anche peggio del giorno uno. Peggio del vano tentativo di far mancare i voti per Ignazio La Russa al Senato, peggio dei «no» ricevuti in sequenza sulle caselle di governo e della danza politicamente macabra che hanno finito per generare.

Il giorno due è oltre, è di più: tanto si diradano le nubi su chi era in difficoltà fino a ieri l’altro, come Matteo Salvini; tanto si concentrano su Forza Italia, ormai spaccata in due tra «governisti» senza ancora un governo (Antonio Tajani, Anna Maria Bernini e compagnia) e i cosiddetti «antigovernisti» (Ronzulli e un folto drappello di parlamentari di Senato e Camera).

L’elenco

Maledetti elenchi. Maledette prime volte. C’era un elenco corredato da numeri anche quel giorno al Quirinale, alle consultazioni dopo il voto del 2018, in cui Salvini parlava per la prima volta a nome di tutto il centrodestra e Silvio Berlusconi provava a recuperare centimetri di centralità politica sottolineando con le dita «e uno, e due, e tre», arrivando fino a dieci. Ed era stato l’inizio di un lungo periodo di gelo tra il Cavaliere e il segretario leghista.

Stavolta Berlusconi si è fermato a quattro. Non mimando ma scrivendo; non nei confronti di Salvini ma contro Giorgia Meloni, definita in un appunto vergato su carta intestata «Villa San Martino» donna dal comportamento «supponente», «prepotente», «arrogante», «offensivo». E se non fosse intervenuto un tratto di penna inserito a mo’ di cancellazione, anche «ridicola». Una persona (la grafia del Cavaliere è chiara e inconfondibile) che «non ha nessuna disponibilità al cambiamento» e con cui «non si può andare d’accordo».

Qualcuno ipotizza che fosse un messaggio che voleva e doveva arrivare a destinazione, che l’ostentazione dell’appunto sul banco del Senato e la piena consapevolezza della potenza dei teleobiettivi dei fotografi erano state messe in conto; altri che il Cavaliere, al contrario, avesse detto di aver raccolto «giudizi altrui» su Meloni e di averli appuntati come appunta per abitudine ogni cosa di cui si trova a parlare, persino il menù del pranzo o della cena. Le ore che arrivano senza una smentita, e l’intervento del presidente del Senato Ignazio La Russa («Berlusconi dica che è un fake») sono benzina sul fuoco di un cantiere in fiamme.

La guerra in Forza Italia

Tajani, Bernini e il pacchetto di mischia delle «colombe» azzurre, che hanno attivato canali in proprio con FdI, hanno detto a chiunque che la strategia di sabotare il cantiere del governo Meloni è stata un errore. Hanno l’appoggio della vecchia guardia del berlusconismo, da Fedele Confalonieri a Gianni Letta, termometri di quel «partito azienda» che è governista per definizione sempre, figurarsi ora che in maggioranza c’è anche FI.

L’ala dei «falchi», capitanata da Ronzulli, conta su un robusto drappello di parlamentari. Senza un intervento chiaro di Berlusconi, la disputa uscirà dal «dietro le quinte» per finire sulla scena già all’inizio della settimana. L’occasione? La partita per i capigruppo. Ronzulli, ormai rassegnata al veto su un suo futuro da ministra, sogna di scalare il coordinamento del partito e magari, prima ancora, di candidarsi a guidare il gruppo al Senato.

Alla Camera Giorgio Mulè, forte del credito aumentato dall’esperienza nel governo Draghi, o Alessandro Cattaneo potrebbero lanciare un’opa sulla riconferma di Paolo Barelli, che sta nel gruppo Tajani. Una giostra che rischia di triturare tutto. Rapporti umani, coalizione, quel che resta del partito. Tutto.