Ciao Antonio, mi stai antipatico… e ricordati che (anche) l’Europa è morta

Ciao Antonio, mi chiamo Saverio. Mi stai antipatico. Mi sta antipatica l’immagine che di te hanno riscostruito tutti i giornali.
Mi stai antipatico perché probabilmente siamo simili. E non solo perché siamo entrambi ragazzi, tu un po’ più in grande. Non perché anche io come te provo a fare questa vituperata professione di giornalista. E nemmeno perché siamo entrambi calabresi, tu solo di origine. Ti odio perché entrambi sogniamo.

Tu sognavi dal Trentino e da Strasburgo. Io sogno dalla Calabria. Immagino che quando scrivevi, le dita danzavano sulla tastiera leggere come il volo che da piccolo ti ha portato da Reggio Calabria a Trento. Le mie ora graffiano i tasti e si rialzano con la stessa fatica che vedo fare alle persone qui intorno. Sono frasi spezzate, percorsi interrotti.
Ho sbagliato. Saremmo potuti essere simili. Vicino a due confini, ma il tuo era il confine dell’Italia in mezzo all’Europa, il mio è quello dell’Europa in mezzo al mare. Le tue montagne sono le Dolomiti, sotto cui si estendono valli e luci di città, le mie sono le vette del Pollino, dell’Aspromonte, della Sila i cui promontori scendono a picco sul mare. Nella tua radio parlavi di Europa, in quella che provo a fare io ogni tanto, di satira, chissà a parti invertite…

Questo posto è di confine e di confino. È notizia dell’altro giorno che i trasporti ferroviari dell’Alto Tirreno Cosentino sono stati ancora una volta penalizzati. Un altro treno perso nonostante siano sempre in ritardo. No, Antonio tu eri europeo, italiano. Io no, sono calabrese.
L’Europa che tu raccontavi e sognavi ha confini diversi da quelli geografici. Siamo diversi perché è diverso quello che viene da qua. Uno studente non è solamente uno studente: è uno studente calabrese. Un operaio calabrese, un insegnante calabrese. Un giornalista calabrese. Il lavoro significa compromesso, patteggiamento, cultura significa ribellione. Tutto ha un significato diverso. Noi non siamo calabresi perché è l’Italia ad essersi allungata cacciandoci in Africa, non è l’Africa ad essere arrivata. Noi siamo diversi perché siamo trattati come diversi: accettati, integrati perché serviamo (in qualunque senso si intenda questa parola) per poter dare agli altri la possibilità di definirsi civili e sviluppati, ma nascosti per non mostrare di cosa è fatta l’Europa e l’Italia. I voti raccattati in maniera più o meno lecita, i soldi ripuliti nelle grandi aziende e così via.

No, Antonio l’Europa è morta. Muore ogni giorno a Idomeni in Grecia, muore nelle carceri libiche (merito del tuo conterraneo Minniti), nei porti Siciliani, a San Ferdinando. L’Italia è morta, seppellita con rifiuti tossici che sono stati scaricati nel mare con la complicità delle istituzioni, morta con i malati nei nostri ospedali pubblici, distrutti perché i privati portano più voti, morta sotto i tetti delle scuole che cadono.
E non basta andar via, la Calabria è un luogo dell’anima. Passato un certo limite di tempo, non se ne esce più. Come un treno in ritardo. Ce la si porta dietro, dentro ovunque. Come una colpa, come un peccato originale. Si è calabrese, non si nasce in Calabria. Ancora una volta la mela di Eva comporta la morte. Tu parlavi di sogni e io di incubi, per questo tu eri europeo e io sono calabrese.

Mi stai antipatico, come mi sta antipatica la Calabria. Mi stai antipatico perché il tuo sogno era la tua realtà, perché il mio sogno è la tua realtà. Ma non voglio andar via: la mia Calabria, non è questa realtà. Questa è la vostra realtà, vostra dei Pelle, dei De Stefano, dei Muto e poi anche di tutti gli altri dei Scopelliti, degli Oliverio non la mia. Calabresi sono Sumaila Sacko, Mimmo Lucano, Corrado Alvaro, Tommaso Campanella, ma anche Altiero Spinelli, tutti che sognavano una Città del Sole. Non voglio andar via perché sogno un’Europa che sia fatta di terra calabrese.

Saverio Di Giorno