Cosenza, Istituto Papa Giovanni XXIII: diario di uno scandalo

di Luigi Guido

Nessuno più ricorda che non si sapeva nulla, fino al 9 ottobre 2006: quel giorno un titolo venne dato in prima pagina su La Stampa. Il giorno appresso, la notizia venne ripresa dal TG1, e poi dalle altre reti Rai e poi dal TG5 e ancora dal resto delle reti Mediaset.

Il bubbone di Serra d’Aiello era – finalmente – scoppiato. Finalmente tutti seppero della purulenta verità che stava divorando l’Istituto Papa Giovanni XXIII insieme ai suoi relitti umani. Quel titolo e quell’articolo non la raccontarono tutta, però. E neppure bene. Senza offesa per l’inviato da Torino che si servì del collega del posto per entrare in una struttura blindatissima, sino a quel momento, e disseminata di rischi di ogni sorta. Servirono tuttavia a scoperchiare il pentolone.

Perciò la storia è ben più vasta di quanta ne fu raccontata. Il declino dell’Istituto Papa Giovanni XXIII ha origini ben più vecchie di quanto si sia voluto far credere. Tali origini coincidono, bruscamente, con la fine dei suoi tempi migliori. Una fine non annunciata.

Non vi sono, nella storia dell’istituto, momenti che preannuncino l’arrivo dell’orrifico epilogo che da quel giorno di ottobre di 12 anni fa tutti vedemmo rivelato. Era, sino a quel momento, il segreto in forza del quale si sarebbe “sparato ad altezza d’uomo” (letteralmente, materialmente), pur di non rivelarlo.

Non c’è, però, neppure un vero e proprio periodo di stasi, nella vicenda finanziaria e gestionale del Papa Giovanni XXIII, perché le cose andavano sin troppo a gonfie vele, fino a un certo punto. C’è, invece, la comparsa improvvisa di un oscuro spettro che si abbatte sulle sorti di quella comunità. Un nero mantello tessuto, con ogni probabilità, ai telai del complotto. Soltanto così è possibile individuare una ragione della catastrofe che da un giorno all’altro ha colpito il benefattore vero di quella comunità, don Giulio Sesti Osséo, e la sua creatura: ingigantita al di là di ogni previsione possibile, al di là delle forze del suo stesso fondatore, al di là dell’accettabile per chi, qualcuno o qualcosa, probabilmente stava già progettandone la distruzione.

C’è dietro un terribile intreccio d’eventi, che vede coinvolta la chiesa, la massoneria e la finanza locale. Ma dietro gli eventi vi sono le azioni e gli uomini e, in questa storia, spesso si tratta d’uomini sì in carne e ossa ma con una tonaca addosso.

Si tratta di preti e prelati che, a un certo punto, smettono di osservare passivamente la crescita di quella ch’era considerata la “Fiat del Mezzogiorno d’Italia” mentre attendono, con tanta impazienza, che don Giulio commetta qualche errore. Si tratta di monsignori e cardinali che, sia pur a distanza, tengono gli occhi ben aperti. Perché nella storia dell’Istituto Papa Giovanni XXIII vi sono anche pagine di alta finanza, quella che per lungo tempo ha contato in Calabria e su cui poteva contare, tutto sommato, anche l’imprenditorialità di molti calabresi tenaci e persuasi del fatto che restare nella propria terra fosse cosa buona.

Chi presidiava però il controllo e la gestione di tutte le operazioni economiche della struttura era l’ex Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania. Perciò anche la Carical ha un compito di primo piano, insieme alla cosca dei tonacati che contano, nel “crac” dell’Istituto. Ora tutti sanno che il ruolo chiave nell’annientamento dell’opera di don Giulio Sesti Osséo è stato assunto da un prete, in particolar modo. Anzi un prelato. Si tratta dell’ex vescovo di Cosenza, Giuseppe Agostino, all’epoca dei fatti ancora ignoto alle comunità bruzie eppure già molto potente, per esser stato il presidente della Conferenza episcopale calabrese. Questa sorta di “Papa di Calabria” era, al tempo dei fatti, anche vescovo a Crotone. La città di Pitagora “regalerà” infatti più di un nome all’inchiesta giudiziaria condotta dal pm Eugenio Facciolla, all’epoca presso la Procura di Paola, aperta poco dopo lo scoppio del bubbone e che ha portato, quasi due anni dopo, all’arresto di don Alfredo Luberto e allo sgombero coatto della struttura.

Il ruolo di monsignor Giuseppe Agostino è determinante proprio nel periodo di maggior benessere dell’Istituto Papa Giovanni XXIII. Passeranno oltre due lustri, prima che il monsignore, vescovo a Cosenza, inscenasse la farsa della pubblica maledizione dell’opera, apostrofandola come la «bestemmia sociale» che in effetti è diventata.

A quel tempo l’Istituto registra ben 1600 addetti all’assistenza per circa 800 ospiti della struttura. Tutt’intorno all’area territoriale dell’Istituto c’è un’azienda agricola di oltre 100 ettari in cui lavorano circa 200 persone. Sui terreni, decine di fabbricati. Un gregge di oltre duemila pecore e una mandria di 500 capi bovini costituiscono una delle principali risorse alimentari non solo della struttura assistenziale quanto dell’intero paese e dell’hinterland. E poi grano, ortaggi, frutta, verdure. Non manca nulla per la sussistenza della comunità. È una macchina produttiva che coinvolge un’intera popolazione di residenti.

Siamo negli anni che vanno dal 1992 al 1994. Ed è in questo periodo che qualcosa va storto. È in questo periodo che don Giulio Sesti Osséo commette l’atteso errore…

1 – (continua)