Franco, Claudio e la Libertà (di Gabriele Carchidi)

di Gabriele Carchidi

La prima volta che ho sentito parlare di Franco Dionesalvi ero un bambino di 10 anni (ancora non compiuti) e facevo le scuole elementari a via Roma tra il vecchio edificio intitolato a Lydia Plastina-Pizzuti e l’allora nuovo plesso, 100 metri più avanti, intitolato a Evelina Cundari. Lo citava entusiasta la mia maestra, Elisa Arcadi Ponte, che nel mentre ci preparava agli esami, ci dava notizia che il suo allievo prediletto, Franco appunto, s’era diplomato con grandi risultati al Liceo Classico Telesio. E per me era già un mito perché alla maestra le si illuminavano gli occhi quando parlava di questo ragazzo, bravissimo e che componeva già poesie. Me lo immaginavo in mille modi, ci fantasticavo anche sopra, mi sarebbe piaciuto un sacco già allora vedere com’era e soprattutto cosa e come lo diceva.

Passò un po’ di tempo, nel frattempo anch’io avevo deciso di frequentare il Telesio e avevo iniziato a far parte del movimento ultrà di Cosenza, dove tra i “ragazzini” si faceva spazio un Dionesalvi, che non era Franco, ma il suo giovane fratello, Claudio. I due, a dire la verità, si passavano 15 anni e dovevano essere diversi perché se Franco me lo descrivevano come studioso e poeta, Claudio mi sembrava molto più indisciplinato e chiassoso. In realtà, poi ho capito che erano un po’ il riflesso dei loro genitori ma che non erano affatto diversi, anzi.

Il papà era Mario Dionesalvi, storico preside del Liceo Scientifico Scorza ma una sorta di “totem” per il mondo della scuola cosentina. Prima vincitore del concorso a cattedre nelle scuole medie e poi negli istituti tecnici e nei licei, insegnò materie letterarie in diverse scuole cosentine; successivamente si dedicò all’attività di preside, risultando sempre vincitore dei concorsi a preside prima di scuola media, poi degli istituti tecnici, quindi dei licei e dello Scorza in particolare. Ha amato anche gli studi giuridici e sociologici e di natura amministrativa, verso i quali una particolare predilezione gli derivava dal suo passato di funzionario del Provveditorato agli Studi. Ma soprattutto ha espletato un’attività religiosa con conferenze, dibattiti, interventi e ricoprendo la carica di presidente dei Laureati Cattolici. E non c’è dubbio che Franco avesse questa impostazione culturale di partenza. Anche la madre, Irene Tucci, era un’insegnante ma a differenza del marito aveva una cultura un po’ più flessibile, probabilmente “comunista” e forse pure un po’ anarchica. Che doveva essere la principale fonte di ispirazione del giovane Claudio.

Gli anni Ottanta volgevano al termine e mi affacciavo alla professione di giornalista nelle radio e nelle tivù private quando finalmente, all’alba dei Novanta, approdai a Telecosenza, la mitica “televisione di Mancini”. Per Mancini intendo naturalmente il vecchio Giacomo, che nel 1990 dopo qualche anno di pausa, aveva ripreso a interessarsi della televisione di famiglia, già attiva nel corso degli anni Ottanta e poi decisamente trascurata. La nuova sede era a Cosenza vecchia, su corso Telesio, palazzo Campagna e la tivù funzionava un po’ come la… scuola. Eh sì, perché ognuno di noi aspiranti giornalisti aveva una sorta di banchetto con una macchina da scrivere, che i computer ancora erano un miraggio. E alla cattedra c’era la signora Ermanna Carci Greco, figlia di Donna Vittoria, la seconda moglie di Mancini. Tra i giornalisti c’era Franco Dionesalvi, all’epoca 34enne e quindi più “vecchio” rispetto a me e agli altri giovani della redazione. L’onorevole non passava molto spesso dagli studi ma in compenso mandava le “carte” ovvero i suoi editoriali politici. Faceva un pezzo generale sulla politica nazionale, un altro sulla politica regionale e uno su quella cittadina. Eravamo nel 1991 e dunque alla vigilia di grandi sconvolgimenti: Tangentopoli su tutti e subito a ruota le stragi di Capaci e di Palermo, e poi la nuova strategia della tensione. E avere a disposizione le “carte” di Mancini era a tutti gli effetti una “scuola politica” di primo livello. Anche perché, tra gli altri compiti, avevo quello di leggere il telegiornale e quindi avevo imparato a decifrare la scrittura “geroglifica” di Mancini e pure ad interpretarla nella maniera più faziosa possibile.

Franco invece era l’unico che aveva il “permesso” di scrivere articoli di sua produzione e non c’è dubbio che fosse il più bravo e il più geniale, di un’altra categoria insomma. Aveva una trasmissione specifica nella quale si cimentava nella sua passione della poesia ma interveniva “poeticamente” anche nel telegiornale alla “TeleKabul” e aveva licenza persino di scrivere pezzi più propriamente politici e comunque in linea con il pensiero manciniano.

Giacomo Mancini e donna Vittoria Vocaturo

Iniziando a frequentarlo, avevo capito che in fondo non era molto diverso dal fratellino “rumoroso”, solo che aveva una cifra culturale e stilistica inevitabilmente più profonda, assorbita sicuramente anche dagli insegnamenti paterni. Ma non era per niente “bacchettone” e mi faceva letteralmente morire dal ridere quando mi sfotteva perché ero “costretto” ad andare alla cattedra dalla signora Ermanna o quando mi rattristavo per le “sgridate” di Donna Vittoria. Lui ironizzava senza essere mai cattivo o volgare e prendeva per il culo anche quei cani da salotto travestiti da finti ribelli che bazzicavano la redazione dipingendoli con pennellate caustiche e dissacratorie che mi sarebbero venute utilissime per il mio futuro. E poi menava fendenti di malamorte anche quando faceva “poesia”. Non dimenticherò mai un suo pezzo sugli arrampicatori sociali dei convegni – passati e futuri -, che pur di presentare una manifestazione erano capaci di vendersi anche… la mamma. “Convegno, vegno vegno e mi pago l’assegno…”: questo era l’incipit di un pezzo memorabile sui forzati della convegnistica, che stavano sulle balle anche a Mancini.

Quanto alla politica, nel ’91 dopo che i Gentile avevano fatto “cadere” da sindaco il figlio di Mancini, Pietro, s’era insediato un rassicurante “monocolore” democristiano guidato da Peppino Carratelli e in un altro pezzo memorabile, Franco si era affrettato a battezzare la nuova giunta “Carratelli-Barile”. In realtà, Mimmo Barile, eletto consigliere nel ’90 nelle file del fascistissimo Movimento sociale, non era assessore ma col suo appoggio esterno legittimava i democristiani che strizzavano l’occhio ai Gentile non ancora cinghiali. E devo dire che quel “Carratelli-Barile” ai clericalfascisti faceva addirittura più male delle bordate del vecchio Giacomo. 

Franco era con noi quando, nel ’92, l’onorevole perse le elezioni politiche “fatto fuori” nelle fatidiche quaterne da Sandro Principe e Tonino Mundo ed era ancora con noi quando, l’anno dopo, vinse contro tutto il sistema dei partiti prendendosi in prestito anche… quel Barile di due anni prima. E Franco era riuscito a fare ironia anche sul “ritorno” del… Barile e quando attaccava a ridere non si fermava più: esplodeva letteralmente, ti faceva ridere solo a guardarlo perché aveva anche una grande mimica quando parlava e non era solo un poeta: era anche un oratore di Serie A, particolare che faceva rosicare da matti chi invece non riusciva a mettere una parola dietro l’altra senza inciampare o biascicare. Che tempi!

Furono i “principiani”, nel 1994, a eliminare Telecosenza grazie a un cavillo procedurale e a un grande professionista che s’era insinuato nella proprietà e la chiusura della tivù portò Franco a stare qualche anno sull’Aventino perché aveva rifiutato di fare l’assessore in prima battuta e aveva accettato solo alla seconda elezione, nel 1997. Sarebbero stati gli anni del Rinascimento di Cosenza, delle Invasioni e della Casa delle Culture e di Franco “capo” della cultura. Io intanto avevo trovato rifugio al Quotidiano e al vecchio Mancini non l’amavo più ma per Dionesalvi senior avevo sempre un debole e stavo ore ed ore ad ascoltarlo, anche perché le occasioni non mancavano, e perché nella inevitabile dicotomia, o se preferite derby, tra “dionesalviani” e “piperniani” (che comunque Mancini amava in egual misura) io stavo in tutto e per tutto con i primi e ci mancava pure. Ricordo che alla fine degli anni ’90 Claudio pubblicò la sua tesi di laurea e doveva presentarla: mi disse che aveva chiesto alla mamma, alla signora Irene, di individuare un cronista adeguato e mi riferì – con mia enorme sorpresa – che aveva indicato proprio me invece che quelli sulla… cresta. Sono sempre stato sicuro che dietro quella decisione ci fosse anche Franco e quella fu la prima volta che presentai “qualcosa”. 

Purtroppo arrivò il 2002: il vecchio se ne andò e dopo qualche mese arrivarono i Ros e l’operazione No global. Il Quotidiano non si distinse certo per vicinanza a Claudio e agli altri, anzi… La signora Irene se n’era andata anche lei un anno prima e mi ricordo come se fosse adesso che Claudio fu liberato proprio il primo anniversario in cui la mamma era mancata. Intanto, c’era da presentare “Mammagialla”, il secondo libro di Claudio e lui e Franco (che firmò la postfazione) decisero di chiamare ancora me, anche se stavo in quel giornale. Nonostante i casini ci divertimmo tanto e alla fine andammo dal Cugino a Dipignano. Franco aveva già 46 anni, io ormai mi avvicinavo ai 40 e Claudio diventava “adulto”: eravamo una pigna anche se il vecchio non c’era più e la nostra vita sarebbe stata ancora tutta da scrivere e ci avrebbe riservato ancora tante, troppe amare sorprese.

Eh sì, perché nel frattempo Franco aveva deciso di scegliere prima Rende e poi la Regione e l’Università, e noi al Quotidiano ci eravamo spaccati in mille pezzi andando dietro ai falsi miti. Tempi duri per tutti, io poi ho vissuto una decina d’anni da borderline e ho visto che anche Franco non se la passava benissimo. Frequentavo molto di più Claudio e lui spesso mi faceva da tramite col fratello, mi raccontava le sue avventure, i suoi amori, i suoi cambiamenti e le sue delusioni. Ed era stato ancora Claudio che mi aveva detto che Franco se n’era andato a Milano dopo la plateale rottura con gli Occhiuto (arrassusia signuri nei secoli dei secoli) e che avrebbe voluto scrivere su Iacchite’. Nacquero così le “Lettere da Milano”. Conservo tutti quei pezzi che mi ha voluto “regalare” con orgoglio e li sto ripubblicando in queste ore perché ci restituiscono pienamente quello che era e quello che sarà Franco Dionesalvi per tante generazioni di cosentini: un Uomo libero con la U maiuscola e con dieci paia di coglioni. Altro che i buffoni che si atteggiano a professionisti.