Il giorno della civetta: gli Uomini e i quaquaraquà

Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

di Valter Vecellio

“Uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo, quaquaraquà…”. Quante volte l’abbiamo sentita, e ripetuta noi stessi, la classificazione del genere umano che viene fatta da Mariano Arena, il mafioso de Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia, così ben interpretato nel film che ne ricavò Damiano Damiani da Lee J.Cobb? Nel film quel “piglianculo” diventa “ruffiani”, per non incorrere nei fulmini della censura. Ma quella pagina, in entrambe le versioni, è diventata un classico”. Il libro stesso può essere considerato un classico, ed è grazie a quel libro – e a quel film – se molti italiani presero consapevolezza che esisteva un qualcosa, una organizzazione criminale ramificata e antica, che si chiamava mafia e che i suoi adepti chiamavano “La cosa nostra”.

Il giorno della civetta è ormai vicino al 60° anniversario; e anche se parla di una mafia agricola, che ancora non si è urbanizzata, contiene validissime, utilissime indicazioni per l'”oggi”. Sciascia lo pubblica da Einaudi nel 1961, ma lo scrive l’estate precedente, nella casa di campagna di Racalmuto dov’era nato: in quella casa della “Noce” dove scrisse tutti i suoi libri, d’estate, dopo averli a lungo pensati d’inverno.

E’ la storia di un “duello”: tra il capitano dei carabinieri Bellodi – lo si chiama sempre per cognome, il nome non si sa – e il capomafia di una mafia di campagna, ancora non urbanizzata, Mariano Arena. Sciascia si ispira a un episodio realmente accaduto, il delitto di Accursio Miraglia, un sindacalista ucciso dalla mafia nel gennaio del 1947. Anche Bellodi è ricalcato su un carabiniere realmente vissuto: Renato Candida, autore tra l’altro di uno dei primi libri su Cosa Nostra, Questa mafia, libro ancora oggi interessantissimo e per tanti versi rivelatore. Proprio perché Candida aveva capito tante cose, forse troppe: dopo aver pubblicato il libro viene prontamente trasferito in Piemonte.

“Io ho una certa pratica del mondo: e quella che diciamo l’umanità e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini, i mezz’uomini pochi, chè mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancora più in giù: agli ominicchi che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi… E ancora di più: i pigliainculo che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, chè la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo… Anche lei, disse il capitano con una certa emozione”.

Famosissima la pagina dove il capomafia classifica il genere umano, ma la pagina davvero importante però è quella che viene prima. Bellodi sente che il mafioso – anche grazie alle protezioni politiche di cui gode a Roma – gli sta per sfuggire dalle mani. Lo capisce, e pensa a Cesare Mori, il “prefetto di ferro” che Mussolini aveva mandato in Sicilia, e che aveva stroncato il brigantaggio; quando poi Mori aveva cominciato a pestare i piedi alla mafia, che era già entrata nel regime, il prefetto viene nominato senatore e rimosso.
I suoi metodi erano brutali, all’insegna del “fine giustifica i mezzi”, al di là e al di sopra delle leggi, che per quanto fasciste, qualche garanzia pure la davano. Fare come Mori, pensa per un attimo Bellodi. Una tentazione che scaccia subito: no, si dice, bisogna stare nella legge. Piuttosto, quello che serve è indagare sui patrimoni, mettere la Finanza, mani esperte, come hanno fatto in America con Al Capone, a frugare sulle contabilità, e non solo dei mafiosi come Mariano Arena: annusare le illecite ricchezze degli amministratori pubblici, il loro tenore di vita, quello delle loro mogli e delle loro amanti, censire le proprietà e comparare il tutto con gli stipendi ufficiali; e poi come dice Sciascia, “tirarne il giusto senso”.
Quello che anni dopo fanno Beppe Montana, Ninì Cassarà, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino: che cercano di “tirare il giusto senso” appunto indagando sulle tracce lasciate dal denaro, che non puzza, ma una scia la lascia sempre, a saperla leggere, a volerla trovare.
“Tirare il giusto senso”, significa anche Anagrafe Patrimoniale degli Eletti; significa che ministri, parlamentari, amministratori pubblici devono vivere come in una casa di vetro, e devono rendere conto del loro operato agli elettori, che devono essere messi nella condizione di sapere. Se quei suggerimenti fossero stati accolti, probabilmente molte cronache giudiziarie, di ieri e oggi, ce le saremmo risparmiate.
L’altra pagina importante e amarissima è l’ultima. Bellodi è tornato a Parma, c’è una festa, e si racconta una storia: quella di un medico del carcere che si mette in testa di cacciare i mafiosi sani dall’infermeria e ricoverarvi i detenuti malati. Il medico una notte è vittima di un’aggressione, un pestaggio all’interno del carcere. Nessuno lo aiuta, tutti gli dicono che è meglio lasci perdere. Il medico è un comunista, si rivolge al partito. Anche il partito gli dice di lasciar perdere. Il medico allora si rivolge al capomafia, e gli aggressori vengono puniti.
Un aneddoto amarissimo, e non ne sfuggirà il senso, il significato. E dire che qualcuno ha avuto l’impudenza di sostenere che Il giorno della civetta è un romanzo che fa l’apologia della mafia!