Lettere da Milano (di Franco Dionesalvi): L’Ottobre

Lettere da Milano

di Franco Dionesalvi

L’OTTOBRE

Chissà come sarebbe stato, se fosse andata diversamente. Se i Soviet ci fossero ancora, se fossero i consigli di fabbrica a gestire le imprese e non i padroni. Se fosse il Presidium del Soviet Supremo a decidere le politiche economiche del paese, e quelle internazionali.

Il fatto è che, a un certo punto del processo, qualcosa non ha funzionato. Ma qualcosa di enorme, mica da poco. Secondo il pensiero marxiano la rivoluzione si doveva evolvere nella fase due: lo Stato doveva progressivamente ridursi, arretrare, fino a dissolversi. E al suo posto doveva affermarsi la comunità di liberi e di uguali, senza classi, senza organizzazioni repressive, senza leggi. La realizzazione finalmente di una società davvero umana, governata solo dalla solidarietà e dalla ragione.

Ma invece è andata in tutt’altro modo. La dittatura del proletariato, che doveva guidare il viaggio verso il comunismo, è degenerata in una dittatura spietata, di pochi uomini, e talvolta di uno solo. Poi l’Unione Sovietica è diventata meno brutale e più moderata, con Chruscev, poi con Gorbacev. Ma ormai il giocattolo era rotto, il sogno si era frantumato.

Penso a queste cose mentre a Milano celebrano i cento anni dell’Ottobre con una rassegna di film d’epoca della rivoluzione russa, vecchi mostri sacri del cinema muto col pianista che li musica dal vivo. E la gente più che altro sta attenta all’esecuzione, ha l’atteggiamento dei visitatori del museo; poco ci si occupa di ciò che scorre dietro. Diverso era quando quei film li vedevamo per la prima volta, negli anni Settanta. Allora cercavamo una logica e una linea che ci guidasse; e identificavamo in Lenin il buono e in Stalin il cattivo, mentre Trockij era più difficile da decodificare, meglio non schierarsi.

Ora della rivoluzione socialista non parla più nessuno: a “sinistra” perché la si vive come una malattia infettiva da cui ci si è appena vaccinati, meglio non parlarne affatto. E a “destra” perché la battaglia si è vinta, con la propaganda e la retorica più che altro, e allora meglio intascare la vittoria e non approfondire ché è andata bene.

Frattanto c’è un signore che ha pubblicato un annuncio a pagamento sul Corriere della Sera. Ricorda i cinquant’anni della morte del Che. Ha speso soldi di tasca propria per scrivere a grandi caratteri sul giornale “Hasta la victoria siempre”.

Forse è da questo gesto romantico e un po’ insensato che bisogna ripartire.

Perché il problema non è affatto risolto. Perché i “compagni” hanno sbagliato, e di brutto. Ma non possiamo assolutamente rassegnarci. Dobbiamo, in un modo o nell’altro, domani o fra cento anni, realizzare quell’aspirazione alla giustizia e all’uguaglianza che sta incisa nelle nostre menti fin dal principio.