Malasanità a Reggio: “Quei medici si credevano intoccabili”

Cafiero De Raho, procuratore della DDA di Reggio

Era il 21 aprile del 2016 quando Reggio Calabria si svegliò con la terribile notizia dell’inchiesta “Mala Sanitas” per la quale ieri sera sono arrivate durissime condanne in primo grado dal Tribunale di Reggio Calabria. In quell’inchiesta erano stati coinvolti 11 sanitari operanti o già in servizio presso i reparti di Ostetricia e Ginecologia, di Neonatologia e di Anestesia del Presidio ospedaliero “Bianchi-Melacrino-Morelli” del capoluogo. Le accuse sono di falso ideologico e materiale, di soppressione, distruzione e occultamento di atti veri nonché di interruzione della gravidanza senza consenso della donna. In particolare si trattava di quattro arresti domiciliari nei confronti di medici e di sette sospensioni, per un anno, dall’esercizio della professione, medica o sanitaria, a carico di sei medici e di una ostetrica.

Nel dettaglio, ieri sera il Tribunale di Reggio ha condannato l’ex primario di Ginecologia e Ostetricia Pasquale Vadalà a 4 anni e 9 mesi; l’ex primario facente funzioni Alessandro Tripodi a 4 anni e 8 mesi; la pena più pesante 6 anni e 2 mesi è stato irrogata alla dottoressa Daniela Manuzio; 4 anni ad Antonella Musella; 4 anni e 6 mesi a Filippo Saccà; 4 anni a Massimo Sorace; 4 anni a Maria Concetta Maio; 2 anni e 3 mesi a Luigi Grasso; 3 anni a Giuseppina Strati.

Secondo gli inquirenti e ora anche secondo i giudici di primo grado nei reparti si sarebbero coperti illecitamente, “in condivisione con l’intero apparato sanitario”, errori medici che sarebbero stati commessi nell’esecuzione dell’intervento su singole gestanti o pazienti, allo scopo di incorrere nelle responsabilità, soprattutto giudiziarie.

Diversi gli episodi di malasanità che sarebbero stati contestati e che riguardano, in particolare, il decesso, in due distinti casi, di altrettanti bimbi appena nati oltre che le lesioni irreversibili subite da un altro bambino, dichiarato invalido al 100%, i traumi e le crisi epilettiche e miocloniche di una partoriente, il procurato aborto di una donna non consenziente e le lacerazioni strutturali ed endemiche di parti intime e connotative di altre pazienti.

Il procuratore capo della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, Cafiero de Raho, nella conferenza stampa successiva all’operazione “Mala Sanitas” aveva spiegato che si trattava di “prassi degenerative, ovvero quei comportamenti in cui si ritiene di poter proseguire perché il settore è ritenuto un settore intoccabile.

Quello degli intoccabili – ha detto – è un argomento che io credo debba essere messo da parte un po’ alla volta: stiamo intervenendo in tutti i settori, perché nessuno pensi di essere intoccabile. Questa volta è la sanità…”. Nel presidio ospedaliero si era creato “un sistema di copertura illecito, condiviso dall’intero apparato sanitario”, spiegavano i finanzieri, che è stato attuato tutte le volte in cui “le cose non sono andate come dovevano andare” nell’esecuzione dell’intervento sulle singoli gestanti o pazienti, per evitare di incorrere nelle conseguenti responsabilità soprattutto giudiziarie.

“Un quadro probatorio che richiama alla mente la famigerata ‘clinica del dottor Mengele'”. Non usava mezzi termini un investigatore per descrivere quanto avveniva nel reparto di Ostetricia e ginecologia degli Ospedali Riuniti di Reggio.

Gli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria
Gli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria

Parole cui faceva ancora eco il procuratore, Federico Cafiero de Raho che, incontrando i giornalisti, parlò di “situazione indegna di un Paese civile”.

“Le gravissime vicende di questa inchiesta – aggiungeva il magistrato – sono riassumibili col decesso di neonati, di malformazioni gravissime procurate per colpa e imperizia a puerpere e nascituri, di donne raggirate per abortire senza consenso”. Come nel caso di una partoriente, spiega il procuratore, alla quale “insieme al bambino i sanitari di turno estraggono anche il collo uterino, mutilandola orrendamente”.

O il caso di una donna che “affetta da una forma di patologia della gravidanza, nonostante volesse tenere il bambino d’accordo col marito, per un malore viene ricoverata alla diciassettesima settimana di gravidanza nel reparto dove lavora anche il fratello, il quale, d’accordo con il primario facente funzioni Alessandro Tripodi, le somministra a sua insaputa un farmaco per stimolare le contrazioni uterine e indurre l’aborto”.

Ed ancora, il caso del “neonato prematuro che una dottoressa non riesce ad intubare, inserendo la sonda nel canale digerente anziché nelle vie respiratorie, provocando danni cerebrali indelebili al piccolo, adesso di cinque anni, raccontando alla madre che sarebbe stato fatto il miracolo riuscendo a salvare almeno lei…”. Ieri sera il Tribunale di Reggio Calabria ha punito questi medici infedeli in maniera esemplare, molti altri Tribunali dovrebbero prendere esempio.