Processo Vaticano, il cardinale Angelo Becciu condannato a 5 anni e 6 mesi di carcere

Il cardinale Becciu è stato condannato a 5 anni e sei mesi nell’ambito del processo che lo vedeva imputato in relazione alla compravendita del Palazzo di Sloane Avenue a Londra, per i soldi inviati alla diocesi di Ozieri come offerta per progetti caritativi e per la vicenda legata al tentativo di liberazione di una suora colombiana rapita in Mali e gestita attraverso la sedicente agente di intelligence Cecilia Marogna, a sua volta accusata di aver utilizzato i fondi messi a sua disposizione per spese personali, anziché per quello scopo. Condannata anche Marogna a 3 anni e 9 mesi. Al porporato anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, ottomila euro di multa e ingenti somme da risarcire anche alle parti civili. L’avvocato Fabio Viglione, difensore di Becciu, ha preannunciato appello.

La sentenza è stata letta (23 minuti in tutto) dal presidente del Tribunale, Giuseppe Pignatone, dopo una camera di consiglio di oltre quattro ore. Riguarda, oltre a Becciu e a Marogna, altri otto imputati. I broker Raffaele Mincione (5 anni e mezzo) e Gianluigi Torzi (6 anni), il presidente e il direttore dell’allora Aif (l’organismo antiriciclaggio della Santa Sede), René Brulhart e Tommaso Di Ruzza (entrambi condannati solo a una multa di 1750 euro cadauno, condanna più lieve solo per omessa denuncia), il banchiere Enrico Crasso (7 anni e 10mila euro di multa), gli ex dipendenti della segreteria di Stato don Mauro Carlino (assolto del tutto) e Fabrizio Tirabassi 7 anni mezzo) e l’avvocato Nicola Squillace (un anno e 10 mesi). In generale il Tribunale ha comminato condanne inferiori alle richieste del Promotore di giustizia, Alesssandro Diddi, ma ha aggiunto richieste di confisca notevoli. Tutti i condannati sono stati interdetti perpetuamente dai pubblici uffici, tranne Marogna (interdizione temporanea), Brulhart e Di Ruzza, per i quali non c’è alcuna interdizione.

Alla sentenza si è arrivati dopo 86 udienze, compresa quella finale di questa mattina, al termine della quale il presidente Pignatone ha ringraziato tutti coloro che hanno reso possibile il processo, concluso in prima grado dopo 29 mesi (prima udienza il 27 luglio 2021), anche se il dibattimento vero e proprio è iniziato il 1° marzo 2022. Un dibattimento che – secondo Pignatone – “ha fatto emergere non pochi nuovi elementi di valutazione, non importa qui se a conferma o smentita dell’impostazione iniziale dell’Accusa. Se così è, e il Collegio ne è convinto, – ha aggiunto il presidente – risulta confermato che il contraddittorio tra le parti è il metodo migliore per raggiungere la verità processuale e, mi permetto di aggiungere, per cercare di avvicinarsi alla verità senza aggettivi. Per questo il Collegio ha sempre cercato, nei limiti consentiti all’interprete dal quadro normativo vigente, di adottare interpretazioni e prassi operative che garantissero l’effettività del contraddittorio, assicurando il più ampio spazio alle parti, e in specie alle Difese. In tal senso, – ha concluso Pignatone – abbiamo registrato con piacere il riconoscimento da parte di molti difensori della sensibilità e dell’impegno del Tribunale su questa questione cruciale”.

Il procedimento ha comportato esattamente un tempo di ventinove mesi, 85 udienze, una media di oltre 600 ore trascorse in Aula, 69 testimoni ascoltati, 124.563 pagine cartacee e in dispositivi informatici e 2.479.062 files analizzati presentati dall’accusa, 20.150 pagine comprensive di allegati depositate dalla difesa, 48.731 dalle parti civili. Processo – il più lungo e articolato che si sia mai celebrato tra le mura leonine – definito il “century trial”, il processo del secolo, dalla grancassa mediatica – specialmente quella anglosassone – che ha accompagnato le fasi precedenti al suo avvio, il 27 luglio 2021, con un’attenzione calata nel corso delle 85 udienze (svoltesi a volte anche per cinque o sei volte al mese o in piena estate) e riaccesa dinanzi ai vari plot twist, i colpi di scena, che hanno segnato e a volte mutato il corso degli eventi di questo tourbillon di personaggi pittoreschi, immobili di lusso, telefonate registrate, videoproiezioni, memoriali dettati, chat WhatsApp sopra le righe.

Il Comunicato del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano

Con la sentenza emessa oggi, dopo 86 udienze, il Tribunale ha definito il giudizio di primo grado del processo a carico di dieci imputati e quattro società, che – come è noto – aveva ad oggetto plurime vicende (distinte, pur se con profili di connessione oggettiva e soggettiva), la principale delle quali è nota con riferimento al palazzo sito in Londra, 60 Sloane Avenue.

In ordine a questa, il Tribunale ha ritenuto sussistente il reato di peculato (art. 168 c.p.) in ordine all’uso illecito, perché in violazione delle disposizioni sull’amministrazione dei beni ecclesiastici (ed in particolare del canone 1284 C.I.C.), della somma di 200.500.000 dollari USA, pari a circa un terzo delle disponibilità all’epoca della Segreteria di Stato. Detta somma è stata versata tra il 2013 e il 2014, su disposizione dell’allora Sostituto mons. Giovanni Angelo Becciu, per la sottoscrizione di quote di Athena Capital Commodities, un hedge fund, riferibile al dr. Raffaele Mincione, con caratteristiche altamente speculative e che comportavano per l’investitore un forte rischio sul capitale senza possibilità alcuna di controllo della gestione.

Il Tribunale ha quindi ritenuto colpevoli del reato di peculato mons. Becciu e Raffaele Mincione, che era stato in relazione diretta con la Segreteria di Stato per ottenere il versamento del denaro anche senza che si fossero verificate le condizioni previste, nonché, in concorso con loro, Fabrizio Tirabassi, dipendente dell’Ufficio Amministrazione, ed Enrico Crasso.

Quanto all’utilizzo successivo della detta somma, servita – fra l’altro – per l’acquisto della società proprietaria del palazzo di Sloane Avenue e per numerosi investimenti mobiliari, il Tribunale ha ritenuto Raffaele Mincione colpevole del reato di autoriciclaggio (articolo 421-bis c. p.)

Ha invece escluso la responsabilità di mons. Becciu, Crasso Enrico e Tirabassi Fabrizio in ordine agli altri reati di peculato loro contestati perché il fatto non sussiste, non avendo più la Segreteria di Stato la disponibilità del denaro una volta che esso era stato versato per sottoscrivere le quote del fondo.

È stata dichiarata poi la colpevolezza di Enrico Crasso per il reato di autoriciclaggio (art. 421-bis c.p.) in relazione all’utilizzo di una ingente somma di oltre 1 milione di euro, costituente il profitto del reato di corruzione tra privati commesso in concorso con Mincione.

In relazione invece al riacquisto da parte della Segreteria di Stato, nel 2018-2019, attraverso una complessa operazione finanziaria, delle società cui faceva capo la proprietà del palazzo già citato, il Tribunale ha ritenuto la colpevolezza di Torzi Gianluigi e Squillace Nicola per il reato di truffa aggravata (art. 413 c.p.) e del citato Torzi anche per il reato di estorsione in concorso con Tirabassi
Fabrizio (art. 409 c.p.), nonché per il reato di autoriciclaggio di quanto illecitamente ottenuto.

Il Torzi, il Tirabassi, il Crasso e il Mincione sono stati invece assolti perché il fatto non sussiste dal reato di peculato loro ascritto in relazione all’ipotizzata sopravvalutazione del prezzo di vendita. Il Tirabassi è stato, inoltre, ritenuto colpevole del reato di autoriciclaggio (articolo 421-bis c.p.) in relazione alla detenzione della somma di oltre 1.500.000 USD a lui corrisposta – fra il 2004 e il 2009 – dall’UBS; il Tribunale ha infatti ritenuto che la ricezione di tale somma da parte dell’imputato integrasse il reato di corruzione in ordine al quale però, dato il tempo trascorso, l’azione penale è ormai prescritta.

Quanto a Tommaso Di Ruzza e Renè Brulhart, rispettivamente Direttore Generale e Presidente dell’A.I.F. (Autorità di Informazione Finanziaria), intervenuti nella fase finale del riacquisto del Palazzo di Sloane Avenue, essi sono stati assolti dei reati di abuso di ufficio loro contestati e ritenuti colpevoli solo dei delitti di cui agli articoli 178 e 180 c.p. per omessa denuncia e per la mancata
segnalazione al Promotore di giustizia di un’operazione sospetta.

Infine, con riferimento ad altri due temi di indagine oggetto del giudizio, mons. Becciu e Marogna Cecilia sono stati ritenuti colpevoli, in concorso, del reato di cui all’art. 416-ter c.p. in relazione al versamento, da parte della Segreteria di Stato, di somme per un totale di oltre 570.000 euro a favore della Marogna, tramite una società a lei riferibile, con la motivazione, non corrispondente al vero, che il denaro doveva essere utilizzato per favorire la liberazione di una suora, vittima di un sequestro di
persona in Africa.

Mons. Becciu è stato altresì ritenuto colpevole di peculato (art. 168 c.p.) per aver disposto, in due riprese, su un conto intestato alla Caritas-Diocesi di Ozieri, il versamento della somma complessiva di Euro 125.000 destinata in realtà alla cooperativa SPES, di cui era presidente il fratello Becciu Antonino. Pur essendo di per sé lecito lo scopo finale delle somme, il Collegio ha ritenuto che
l’erogazione di fondi della Segreteria di Stato abbia costituito, nel caso di specie, un uso illecito degli stessi, integrante il delitto di peculato, in relazione alla violazione dell’art. 176 c.p., che sanziona l’interesse privato in atti di ufficio, anche tramite interposta persona, in coerenza – del resto – con quanto previsto dal canone 1298 C.I.C. che vieta l’alienazione di beni pubblici ecclesiastici ai parenti entro il quarto grado.