Rende, Covid e call center: l’ansia della scelta tra lavoro e salute. Le 10 domande senza risposta

dalla pagina FB Il Padrone di Merda – Cosenza

Un’altra riflessione proveniente da un operatore di un call center di Rende che amplia l’analisi e ci fornisce il punto di vista di chi ogni giorno è costretto a vivere l’ansia della scelta tra lavoro e salute.
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Nel giorno in cui in Calabria si chiudono nuovamente le scuole come segno di totale fallimento della gestione pubblica dell’epidemia, mentre siamo ultimi nella classifica delle regioni per percentuale di somministrazione dei vaccini anti-Covid, attestandoci poco sopra al 5,84 in rapporto al numero degli abitanti, siamo qua a raccontare un episodio che potrebbe sembrare insignificante rispetto al panorama nazionale caratterizzato dai big data, ma non per questo non di interesse e di allerta per chi vive il territorio Rendese e più in generale quello Cosentino.

Alcune testate locali negli ultimi giorni titolano “possibile focolaio in un call center di Rende”, e anche se ormai tutti sanno cosa sono e cosa fanno i call center, vogliamo ribadire che il loro operato, gestito prevalentemente dagli operatori che ne sono il motore, consiste in attività di supporto e assistenza agli utenti quasi sempre per conto società terze in appalto.

Tale contesto lavorativo, nel corso dell’ultimo anno, è stato già segnalato più volte dai lavoratori come luogo di lavoro ad alto rischio contagio. Ciò perché è un contesto promiscuo, con grandi open space, con sale break condivise, dove in condizione normali centinaia di operatori di tutta la provincia si recano per lavorare su turni, seduti nelle loro mini postazioni a pochi metri gli uni dagli altri, per ore, interagendo con gli utenti tramite il mezzo della parola, per la quasi totalità del tempo. Chiunque direbbe che un tale posto di lavoro è ad altissimo rischio, semplicemente perché è risaputo che sostare per lungo tempo, accanto ad altri soggetti e parlando molto spesso ad alta voce, facilita di sicuro la diffusione del virus.

Ma a fronte di questa premesse, la domanda che dovremmo tutti porci sono:
1) un tale rischio è un prezzo giusto da pagare rispetto alla reale necessità di avere un lavoratore in presenza in azienda rispetto alla sua postazione in smart working da casa?
2) i lavoratori sono realmente consapevoli e concordi dei rischi/benefici, nell’accettare/condividere tali scelte?

Dopo un anno di pandemia, possiamo limitarci nel dare sempre e solo la colpa al virus? Alla sfortuna? O, forse, i lavoratori dovrebbero poter realmente autodeterminarsi nel momento in cui sono di fronte all’accettazione o meno di lavorare in presenza?
In conclusione, i lavoratori del comparto contact center del nostro territorio che prospettiva di futuro hanno? Quale sarà l’atteggiamento per evitare che tali episodi possano ripetersi? Cosa sta succedendo nelle altre realtà? Dobbiamo aspettarci altri casi simili, soprattutto a causa del dilagare delle varianti e dunque della più facile contagiosità? E, infine, quanta consapevolezza e influenza hanno nelle dinamiche e nelle scelte in questi luoghi di lavoro?
Credo che dovremmo tutti domandarci, chi pagherà tutto questo caos (in termini generali)? I drive-in da allestire? Le centinaia di tamponi da processare? Il personale sanitario coinvolto?

Per non parlare degli altrettanti tamponi che i dipendenti esclusi dagli screening faranno privatamente perché non presenti negli stessi giorni in cui i casi accertati erano in sede, ma presenti in altri giorni, con altrettanti soggetti che potenzialmente potrebbero essere contagiati e dunque contagiosi.