Qualche anno fa ho avuto un alunno proveniente da una famiglia di ‘ndrangheta. Si è affezionato a me, come spesso capita ai ragazzi dei quartieri popolari. Mi ha chiesto di dargli una mano a prepararsi per l’esame di Stato. Per il suo percorso interdisciplinare gli consigliai di approfondire temi come la bellezza, l’amore, le arti, i linguaggi del web. Invece, tra tanti argomenti, ha scelto la mafia. Ho provato a dissuaderlo, ma non c’è stato niente da fare. Allora mi sono deciso a fornirgli materiali. Insieme abbiamo letto brani di libri e visionato tanti film. Dopo la proiezione dei bellissimi “Alla luce del sole” e “I cento passi”, che ha molto apprezzato, mi sono posto un problema. Perché mai un ragazzino dovrebbe scegliere di contrastare la mafia se tutti quelli che la combattono, alla fine, muoiono ammazzati? Allora ho iniziato ad accompagnare la visione dei film con lunghi confronti e riflessioni che l’alunno ha seguito in modo attento e partecipe. Un paio di volte m’è capitato di parlare contro la mafia in presenza di suoi parenti strettissimi. Nessuno di loro ha provato a intimorirmi. Non mi hanno sparato. Al contrario, quando facevo notare che le prime vittime della subcultura mafiosa sono proprio gli adolescenti impiegati dai clan come manovalanza, e che i mafiosi sono privi di coraggio e onore perché si servono di ragazzini innocenti, ho incontrato gli sguardi di approvazione dei diretti interessati, cioè di quelli che nel gergo giornalistico potremmo definire, non senza ironia, “addetti ai lavori”. Sapevo che il mio alunno, come migliaia di altri, purtroppo era predestinato. E che di fronte all’eventuale scelta imposta dalla famiglia di riferimento, anche lui, nonostante i miei bei discorsi, prima o poi avrebbe assunto il ruolo assegnatogli all’interno del crimine organizzato. Però volevo provarci lo stesso. Mi premeva inoculargli degli anticorpi culturali, procedimenti cerebrali che al momento opportuno avrebbero potuto far scattare nella sua testa una forma di ribellione, il dubbio che non si possa vivere sempre assediati, guardarsi alle spalle mentre si va in pizzeria con la fidanzata, combattere tutta la vita una guerra che quasi sempre trascina nei bunker della latitanza, in galera o sottoterra.
Al termine dell’anno scolastico il ragazzo affrontò gli esami e ottenne la licenza media. A quel punto, il suo rapporto con le istituzzzioni finiva lì, avendo ormai raggiunto i limiti d’età per la frequenza della scuola dell’obbligo. Mi sono chiesto: e adesso? Ho provato a immaginare che cosa accadrebbe se al compimento della maggiore età, lui, come tutti i cittadini maggiorenni, fosse convocato in un ufficio pubblico dove una persona incaricata dallo Stato o da qualsiasi altro ente gli offrisse una casa gratis, accesso libero ai servizi culturali come cinema e teatro, un reddito sganciato dal lavoro ma connesso ad attività formative che gli conferiscano cittadinanza e magari un ulteriore percorso di studio. Il tutto vincolato a una serie di doveri sociali da rispettare. “Sarebbe un’utopia”, mi sono detto. Allora ho immaginato la vita che svolgerà questo ragazzo nel suo quartiere, i continui blitz della polizia, gli arresti dei suoi parenti.
Don Ciotti è una persona di elevato profilo morale. Compie preziose azioni sociali. Appare assurda qualsiasi critica preconcetta nei suoi confronti, sebbene sia immaginabile che, come ogni altro essere umano, commetta pure degli errori. Ma al di là delle considerazioni sulla persona e le sue opere, entrando nel merito del dibattito sugli strumenti per debellare le mafie, lo capisce pure uno sprovveduto che non si può pensare di sconfiggerle con gli arnesi adottati in questi ultimi decenni. Sono i fatti che lo dimostrano. La confisca dei beni ai mafiosi sarà pure uno strumento valido, ma non va a intaccare i meccanismi di affiliazione. Il 41 bis, oltre a essere una tortura priva di qualsiasi rapporto con la civiltà, sinora ha solo rafforzato le gerarchie criminali. E non è servita a niente, alla luce del fatto che la catena di comando si ricompone un istante dopo le operazioni contro i capiclan.
Allora bisogna trovare il coraggio di affermare che, al di là delle motivazioni di chi ha tracciato sui muri di Locri la scritta: “Meno sbirri più lavoro”, con quel concetto di fondo siamo d’accordo in tanti. È chiaro che tra i destinatari di un reddito di cittadinanza o di altre misure sociali concrete come un tetto e una fascia di diritti, in tanti, innamorati del potere, delle griffe, dei macchinoni e della cocaina, continuerebbero a sguazzare nella malavita. Ma altrettanti sarebbero i soldatini del crimine che sceglierebbero la via della dignità, tenendosi fuori dalla palude malavitosa.
Moltissimi operatori impegnati nel contrastare le mafie dal basso, ma anche all’interno delle istituzioni, non lo ammetterebbero mai ad alta voce, eppure condividono il contenuto di quello slogan. Siamo tutti consapevoli che lo Stato, perlomeno ai suoi vertici e nelle sue viscere profonde, non ha la minima intenzione di vincere la guerra alla mafia, ammesso che davvero questo conflitto sia mai avvenuto. Altrimenti, dopo ogni operazione di polizia, provvederebbe a intervenire socialmente nei quartieri delicati. Garantirebbe dignità. E forse le mafie troverebbero terreno meno fertile in cui affondare le loro radici.
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