Scrivo, ma non sono un giornalista e accuso chi diffama la Calabria e i calabresi

di Saverio Di Giorno

Ormai tutti scrivono, persino io. Il giornalismo è uno dei lavori più ambiti dai giovani italiani, ma quello italiano è profondamente malato. Esistono molteplici “ragioni contingenti” che spingono giornalisti e intellettuali in genere ad autocensurarsi e scendere a compromessi.

Prima fra tutti vi è la crisi della carta stampata con l’avvento di Internet. Se è vero che internet ha portato ad una maggiore fruibilità è altrettanto vero che ha abbassato la qualità. Dal 2007 ad oggi, secondo il Politecnico di Milano, le quote di mercato nell’informazione gestite da internet e dalla carta stampata si sono invertite. Nel 2007, 10% tramite internet e 31% tramite la stampa. Oggi è l’esatto opposto. I guadagni online però si possono fare tramite la pubblicità e i clic: la prima non basta da sola e i clic si possono ottenere solo con sensazionalismi e stando dietro all’umore delle persone. Risultato è che si vedono sempre meno inchieste e analisi approfondite e si fanno molti più compromessi linguistici, e non solo, per riuscire ad attirare traffico ed essere comunque precisi.

Altro risultato è avere meno inviati per le testate grandi e pagare sempre peggio i collaboratori: 15 euro ad articolo quando va bene, fino a 5 o ancora qualche decina di centesimi, o addirittura nulla. Alcuni la chiamano gavetta, ma è un termine improprio perché fare gavetta significa partire da mansioni umili per poi scalare gradualmente, ma le mansioni umili devono comunque essere pagate adeguatamente e in ogni caso il giornalismo non è affatto una mansione umile (ammesso che esistano mansioni umili e nobili). Nella lingua italiana esiste un termine apposito: sfruttamento.

Siamo chiari: non è l’unico caso di lavoro svolto sotto sfruttamento dai giovani e non solo; persino negli ospedali e negli uffici pubblici, molto spesso giovani qualificati sono tenuti senza paga e alle dipendenze di chi magari lo è molto meno. Forse proprio perché lo è molto meno, ma questa è un’altra storia, anzi tante altre storie… però avere un pranzo scadente può comportare un’intossicazione, avere una sanità di bassa qualità può comportare anche la morte. Una buona informazione è alla base di scelte consapevoli, quindi è una questione di democrazia.

Quale collaboratore spende la sua misera paga per approfondire, andare sui posti e così via? Ma soprattutto, quale giornalista o aspirante tale toccherà nomi, persone e fatti rischiando una querela con le relative spese? Quest’ultimo aspetto è uno dei più utilizzati, soprattutto al sud, da politici, imprenditori e potentati locali, per fare una vera e propria censura indiretta.

Qualche dato: secondo l’Osservatorio Ossigeno per l’informazione solo il 4% delle querele è seguito da una condanna. Si attende da tempo una legge per limitarne l’uso. Sorge una domanda ai signori querelanti. Quando viene incriminato un articolo i casi sono due: o il fatto è del tutto errato, falso, oppure ci si preoccupa di come ne esce la propria figura. Nel primo caso dovrebbe bastare una rettifica, nel secondo caso invece la diffamazione deriva dalle brutte compagnie che frequentate o dai movimenti non del tutto limpidi che fate, non dal fatto che qualcuno lo dice. La colpa di infangarvi bisognerebbe darla agli individui o gli ambienti frequentati. È una mezza ammissione: sapete anche voi di fare e vedere cose o persone discutibili altrimenti che diffamazione sarebbe?

A tutto questo bisogna poi aggiungere il pessimo clima creato dalla maggioranza di governo in questo paese a suon di definizioni quali “giornalai” “prostitute” e  “pennivendoli” e di azioni più pratiche come il taglio dei finanziamenti pubblici.

Chi vi scrive è un aspirante giornalista come tanti e quindi in una situazione simile. Per scrivere in questo contesto e in queste condizioni occorre avere molto tempo da perdere o nulla da perdere, perciò senza compromessi. Scrivo anche perché a differenza di altri ho ancora del tempo da passare dietro una tastiera a leggere carte e documenti. Scrivo per chi non ha questo tempo, testimonio. Scrivo, ma non sono un giornalista. Anche in questo caso la lingua italiana è precisa: il giornalismo è una professione quindi prevede diritti, doveri e ricompensi. Ma se non sono giornalista non devo sottostare a doveri e questo non è un articolo: è un’accusa e un appello perché quasi tutti hanno parte in questa situazione di ricatto.  È un’accusa da testimone.

J’accuse chi ha avuto un ruolo politico, almeno negli ultimi dieci anni, (Scopelliti, i Gentile, alcuni alti esponenti del PD) e un ruolo economico (come Barbieri e altri costruttori). Li accuso di diffamazione della Calabria e dei calabresi. Con le loro azioni o non azioni hanno creato un’immagine della Calabria di regione decadente fatiscente, dai patrimoni e paesaggi deturpati, dove nulla funziona a discapito appunto delle giovani eccellenze di cui sopra.

J’accuse anche una parte della magistratura, dei sindacati e dei giornali di aver contribuito alla diffamazione agendo in ritardo a volte o in anticipo con dichiarazioni affrettate o di non aver agito.

Al giornalista Pippo Fava.