Studiare i call center in Calabria: l’Unical e il ri(s)catto occupazionale

Quando il ricatto si confonde con riscatto. Studiare i call center in Calabria

a cura del CENTRO SOCIALE SPARROW

RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE

Il numero di operatori dei call center presenti in Calabria si aggira intorno alle 10.000 unità; stima, questa, approssimativa, visto l’elevato livello di turnover presente in questo settore. Il cuore principale – e l’area regionale originale – dei call center calabresi è Catanzaro, capitale amministrativa del lavoro in cuffia. Tuttavia, la città in cui il lavoro dei call center genera il maggior numero di profitti è Cosenza.

Ad oggi, infatti, la Cosenza Valley risulta essere una vera e propria miniera d’oro per le ditte nazionali del settore, soprattutto per via del flusso di studenti-neo-laureati-precari che orbitano attorno all’Università degli studi della Calabria, situata sulla collina di Arcavacata di Rende. Attorno al centro cosentino e di Rende, più che altrove si trovano le condizioni ‘ideali’ per imporre contrattazioni atipiche in maniera totalmente selvaggia, pur di aumentare i profitti.

Come avviene che Cosenza si stia caratterizzando come un luogo di enorme concentrazione dei call center, anche rispetto al resto della superficie nazionale?

Una delle chiavi di lettura più importanti è la presenza dell’Unical con i suoi 35mila studenti iscritti.

SECONDA PUNTATA

In un recente documentario intitolato “La storia che cambia”, su Rai Storia, dedicato all’Unical, è emerso uno spaccato confuso e grigio delle forme di vita che ruotano attorno a questa fabbrica di saperi: da diverse angolature e voci è emersa la relazione tra questa università e la proliferazione dei call center in quest’area, facendo riflettere su come l’una ingrossi l’altra e – in maniera forse meno visibile e diretta – viceversa.

È stata messa in luce, inoltre, la figura dello studente-lavoratore contento e soddisfatto di percepire 2,50 lorde all’ora; tempo sottopagato e sottratto allo studio e allo sviluppo di altre capacità e competenze; tempo, impiegato a ripetere ritornelli – script – e réclame pubblicitari per aziende che si rivelano spesso essere nient’altro che imprese fantasma all’interno delle catene di appalti e subappalti che rendono operativo il settore. Come invisibile appare il conflitto tra il lavoratore-studente sottopagato e il capitalista, tanto che il giornalista che intervista lo studente-lavoratore chiede provocatoriamente e retoricamente all’intervistato malcapitato: “ma sei tu che parli, o è il call center che parla da dentro di te?”

La ri(s)cattabilità occupazionale  

Con un tasso di disoccupazione giovanile reale che va ben oltre il 50%, ed un mercato del lavoro nel vortice della flessibilità, ma essenzialmente immobile, anche un impiego precario e sottopagato come quello all’interno del call center sembra essere una manna caduta dal cielo. In questo contesto, anche se i soldi sono pochi (il salario medio, dentro ad un call center outbound, non supera i 400 euro mensili), questa entrata rappresenta una emancipazione dal welfare familiare e una rottura, anche se minima, da una dipendenza che genera un senso di frustrazione generale, che accomuna lo studente-precario ai disoccupati e – mentre, per un verso, separa, per tanti altri unisce – i genitori ai figli, nella ‘scelta’ comune del male minore.

Il ricatto occupazionale attorno a cui ruota la ‘fortuna’ dei call center, in particolare, nella Valley cosentina, diventa più stringente, subdolo e capace di invisibilizzare il conflitto, perché lo stesso ricatto occupazionale in molti casi non riesce ad essere individuato come tale, perché viene, piuttosto, ribaltato in riscatto sociale.

In una regione dove i livelli di disoccupazione sono incalcolabili per l’informalità dell’economia, in cui i network familiari sono ancora al centro della dimensione individuale, soprattutto di giovani e studenti/esse, ottenere un contratto, anche se serve ‘essenzialmente’ a registrare una condizione di sfruttamento, significa riscatto dalla dimensione di dipendenza e subalternità famigliare, fuga dalla dimensione informale, forse individuata come dominata ancora dalla famiglia ed ingresso nel mondo ‘standard’ (fatto di stipendi a fine mese, mutui e debiti da contrarre e espiare, obbligazioni, realizzazioni, professionalizzazione, razionalizzazione, ecc. ecc.).

Il call center nella Valley cosentina è anche questo una falsa emancipazione, un ricatto occupazionale mascherato in riscatto sociale, soprattutto per giovani e donne; questo, più incisivamente, se letto dentro la retorica del ‘fare un lavoro onesto al Sud’, a fronte del dominio del lavoro in ‘nero’, e quindi illegale di per sé. La realtà dei call center, in questo senso, sul territorio calabrese può aprire ad analisi molto profonde sulle forme di subalternità e di resistenza in questa regione, in chiave storica e critica.

I centri chiamate, quindi, guardati dalla collina di Arcavacata, attraverso uno sguardo congiunto all’università e alla sua popolazione studentesca, pongono in evidenza come il modello di sviluppo/occupazione che si rincorre sia, per l’ennesima volta, deprimente, in particolar modo per i giovani calabresi: l’uscita dalla  condizione ‘strutturale’ di subalternità tramite un’occupazione precaria e sottopagata.

La percezione del lavoro dei call center come “lavoro momentaneo” 

Anche se in maniera meno incisiva che in passato, l’idea di istruzione universitaria come ascensore sociale risulta essere ancora molto presente. Nella Cosenza Valley, questa logica risulta essere dominante, il lavoro nei call center viene considerato da molti una parentesi occupazionale transitoria: una buona occasione di lavoro utile a contribuire a pagare le spese degli studi (tasse, trasporti, vitto e affitto).

Il numero elevato e il ricambio continuo di soggetti che si rivolgono ai call center come lavoro di passaggio, determinano le maggiori possibilità per questo settore sul territorio di Cosenza di imporre condizioni contrattuali flessibilissime e turnover elevatissimi. Ciò induce a considerare come questo quadro possa determinare, almeno in parte, l’invisibilizzazione del conflitto, seppur in condizioni di sfruttamento. Alla luce di quanto messo in evidenza, risulta chiara la ragione per cui un ricatto occupazionale venga interpretato come un riscatto sociale da parte delle soggettività citate, nella fattispecie lo studente calabrese ancora fortemente dipendente dal network familiare.

Individuare quel posto di lavoro come strumento di riscatto momentaneo per conseguire la laurea e/o per (darsi i mezzi materiali per permettersi di cercare e)‘trovare’ un impiego migliore, spiega in parte il disimpegno, l’indisponibilità, ad avviare anche minime battaglie di carattere vertenziale: nessuno ha intenzione di lottare e di mettersi in discussione per modificare qualcosa che vede come transitorio e distante anni luce da quello è l’immaginario della propria vita.

I fondi europei e la legge n. 488 

La pioggia di finanziamenti che l’Unione europea ha elargito in Calabria nel periodo in cui la regione era considerata “obiettivo 1” e la legge n. 488 sul finanziamento delle imprese meridionali, sono stati i principali volani economici per la nascita dei call center su tutto il territorio regionale.

Il rischio di impresa ridotto al minimo, la totale complicità dei sindacati confederali nell’annullare qualsiasi forma di rivendicazione sindacale sui contratti che si sarebbero andati a stipulare, e la possibilità da parte del ceto politico di creare nuovi bacini di clientela, hanno fatto sì che molte delle imprese presenti sul territorio nazionale, sul finire degli anni 90 e i primi anni del 2000 delocalizzassero le attività produttive del nord Italia (principalmente quelle che insistevano sul territorio milanese) in Calabria. Delocalizzare per intercettare soprattutto le soggettività introdotte sopra: manodopera altamente scolarizzata ma a bassissimo costo, capacità di imporre contratti precari e condizioni di piena flessibilità.

2 – (continua)