Teatrino Italia. Sono sempre i Migliori quelli che se ne vanno

(DI PAOLA ZANCA – Il Fatto Quotidiano) – La maggioranza si è sbriciolata e con lei pure quel poco di garbo istituzionale che sarebbe necessario, quantomeno nei giorni di crisi. Invece, il governo Draghi è caduto, ma con la metà dei senatori che non ha votato la sfiducia e con un presidente del Consiglio che prima dice di essere costretto a rimanere perché “glielo chiedono gli italiani”, poi lascia Palazzo Chigi senza salire al Quirinale per formalizzare le dimissioni e questa mattina si presenterà a Montecitorio, dove è ancora convocata la seduta che sarebbe dovuta servire a rinnovargli la fiducia, per comunicare in pubblico il suo addio.

È tutta senza precedenti, questa crisi che è un Papeete 2 a ridotto tasso alcolico: niente mojito in spiaggia, solo Coca cola alla buvette, quella con cui Matteo Salvini – brindando con il fedelissimo Claudio Durigon – alle 18.30 ha annunciato che la Lega non avrebbe votato la risoluzione firmata da Pier Ferdinando Casini.

Era, quel testo, un sì senza condizioni al premier che qualche ore prima aveva usato il pugno duro contro la Lega su balneari, tassisti e catasto perfino più che contro quei Cinque Stelle che la crisi l’avevano aperta. Un discorso feroce contro i partiti che sono lì ad ascoltarlo, mentre lui è venuto in Aula solo perché c’è stata “una mobilitazione di cittadini e associazioni senza precedenti” che lo implorano di restare. Vuole i “pieni poteri”, lo gela dall’opposizione Giorgia Meloni. Quando lo ascoltano, i leghisti, decidono di replicare alzando il tiro. Chiedono un nuovo governo senza il Movimento, vogliono il rimpasto: tutte condizioni che Draghi aveva già fatto sapere di non poter accettare. Qualche metro più in là, al primo piano di Palazzo Madama, la processione nell’ufficio preso in prestito da Giuseppe Conte è appena cominciata.

Sfila lo stato maggiore del Pd, cerca di convincere il leader Cinque Stelle che tutto sommato i segnali da Palazzo Chigi sono arrivati: generici, ma sono arrivati. E soprattutto che il premier ha deciso di puntare il Carroccio come nemico, e non loro. “Se Maometto non va alla montagna…”, sibila Dario Franceschini prima di varcare la porta, scortato dal ministro più “draghiano” del Movimento, Federico D’Incà. Esce un quarto d’ora dopo, visibilmente irritato. Tempo mezz’ora e il pressing si fa più pesante: arriva Enrico Letta, accompagnato da Roberto Speranza. Gli propone l’exit strategy dell’appoggio esterno: un sì alla fiducia per far ripartire il governo, a cui sarebbe seguito il ritiro dei ministri per sottrarsi a quella “responsabilità diretta” che Conte non sentiva più di potersi caricare. Il leader del Movimento vacilla, ci pensa. Per un attimo, mentre la Lega ha già diffuso le coordinate del Papeete 2, si fa strada l’ipotesi di una maggioranza Ursula che i Cinque Stelle avrebbero potuto assecondare. Di nuovo, si rivedono Franceschini e D’Incà camminare a passo svelto per il Salone Garibaldi: l’ultimo spiraglio, “le stanno provando tutte”, si consolano i governisti.

Ma è la replica di Draghi a far precipitare le cose: ne ha per la Lega (di nuovo) e per i Cinque Stelle, a cui il premier imputa gravissime negligenze sia sul Reddito di cittadinanza che sul Superbonus, due misure bandiera dei governi Conte. È lì che la maggioranza va in frantumi. Un leghista, mentre lo ascolta parlare di “ius solis”, lo corregge ad alta voce: “Si dice Ius soli. Fa il professore, a questo punto lo faccio anch’io”. I dimaiani si aggirano per il palazzo vestiti a lutto. “Troppi errori, da parte di tutti”, scuotono la testa. I colleghi centristi sono disperati. Mariarosaria Rossi, dentro alla buvette, inveisce contro la Lega: “Questi non si capisce cosa vogliono”. Qualche stanza più in là, Licia Ronzulli ha appena detto a Mariastella Gelmini, futura ex ministra, che deve darsi una calmata e se non ci riesce si prendesse lo Xanax. La leghista Lucia Borgonzoni non si capacita di aver perso il momento topico: “Ma nessuno ha avuto la prontezza di fare un filmatino?”. Il cellulare di Matteo Salvini, lì a fianco, ricomincia a squillare. Lui fa il gradasso: “Sì, ci sono un paio di collegi ancora liberi…”.

Prime battute della campagna elettorale che sta per cominciare. Per qualche istante, il Parlamento morente si dimena: far saltare il numero legale, con l’obiettivo di rinviare tutto a oggi e di vedere se nella notte qualche margine di sopravvivenza salta fuori. Tutti compulsano il regolamento del Senato: “Cosa può fare la Casellati? Dopo quanto si rivota? Qual è la soglia per invalidare tutto?”. Il disperato tentativo degli azzeccagarbugli finisce con 98 sì, 38 no, molti assenti e altrettanti “partecipanti non votanti”, la formula con cui il M5S ha voluto segnare i propri voti. L’ultimo intervento lo fa il senatore Ciampolillo: “Voterò la fiducia”, ha lasciato agli atti. Divenne famoso per aver tentato di salvare il Conte-2. Gli è andata male anche con Draghi, solo che non fa neanche più ridere.