Utopia enigmatica a San Giovanni in Fiore: un gregge di case sperduto e le capre sopra il tetto…

A volte la realtà supera la fantasia e ogni tipo di immaginazione. A Ferragosto 2023, appena sei mesi fa, Il Sole 24 Ore ha pubblicato un articolo “illuminante” sulla realtà di San Giovanni in Fiore e raffigura plasticamente la città con alcune capre sopra il tetto, che riassumono la visione di chi la guarda con l’occhio esterno. Ed è fin troppo facile desumere che la metafora anche visiva delle capre si riferisce a chi… governa. A futura memoria… 

Un gregge di case sperduto nella Sila, il dramma di una modernizzazione mai arrivata davvero. E una nostalgia dell’anno Mille che si traduce in mistici (e falsi) Evangeli…

di Giuseppe Lupo

Fonte: Il Sole 24 Ore (https://amp24.ilsole24ore.com/pagina/AEIoRKgD?fbclid=IwAR0hWti4pvaMo6h6MNN4R9VPKLBfjpxYLCygiQ_0_sRIF4YHKSLRtiTNLVc)

14 agosto 2023

Il sentimento di una fioritura utopica là dove sarebbe più facile immaginare il deserto di un silenzio, lo si avverte già dove scorre il nastro d’asfalto dell’autostrada A3, quando si incontra il cartello che indica l’uscita per San Giovanni in Fiore.

Ce ne vuole di tempo prima di avvistare il centro abitato, nel cuore dell’entroterra silano, in Calabria, chilometri e chilometri da percorrere in salita, lungo i tornanti che tolgono il respiro, tra una curva e l’altra, fino a raggiungere la disuniforme orizzontalità dell’altopiano. Anche lassù le curve non finiscono. Accompagnano la silhouette del lago Ampollino, che è una frastagliata distesa d’acqua, nascosta nel verde e intervallata da strutture alberghiere e chioschi per la vendita di bibite e panini. La strada segue una traiettoria che fa lo slalom tra gli alberi, rallenta la corsa ma poi, per un sortilegio indecifrabile, invita le automobili ad andare più veloci. L’abitato di San Giovanni in Fiore appare al termine di questo andirivieni.

Può essere un segno: l’utopia è una spianata rilassante dopo aver esplorato le coordinate verticali, a cui si va incontro con fatica separandosi dalle terre basse del Lametino, dove il paesaggio sembra allargarsi per favorire l’atterraggio degli aerei. Non si può sempre salire: questo indica simbolicamente la strada. E man mano che si riprende fiato filando lungo i bordi del lago Ampollino, le case sbucano all’improvviso da dietro una curva. Paiono a portata di mano, invece la strada induce ancora a uno sforzo. Bisogna toccare il fondo di una gola e solo allora riprendere a salire verso la cima di una collina che sta oltre mille metri, circondata dai boschi della Sila, verdi e ventilati.

San Giovanni in Fiore è indubbiamente una sorpresa: uno immagina un presepe appenninico, ascetico e disadorno, ma si rende conto con ritardo di trovarsi davanti a un gregge di case che con i tetti, i balconi, i terrazzi, le pareti, le finestre coprono, asfissiandolo, ogni centimetro quadrato della costa erbosa.

Quello che si ammira è il paese di un’industrializzazione che non è mai avvenuta o è avvenuta altrove, di cui si sono subito gli effetti passivamente, come uno spettatore poco partecipe di una lontananza. Oltre la metà degli edifici sono vuoti o mai terminati. Li riconosci dai muri rimasti senza intonaco, dalle travi di cemento armato nude, dai ballatoi senza ringhiere, dai balconi murati con mattoni tinteggiati di un bianco così fuori contesto da sembrare illuminati al pari di abitazioni dove festeggiano i fantasmi.

Negli anni selvaggi dell’emigrazione, chi partiva per la Svizzera coltivava la speranza di costruirsi una casa per sé e per i figli, risparmiando fino all’osso in attesa di poter tornare dalle donne che aspettavano pazienti. Il mito di Ulisse ha seminato vittime da queste parti, ma il tempo ha fatto la sua corsa. Gli uomini non sono mai rientrati ed è toccato alle donne rompere gli indugi, mettersi in viaggio per provare l’ebbrezza di salire sul treno verso la Svizzera. Dopodiché sono passati gli anni, i figli sono cresciuti, si sono ambientati nel clima industriale dei cantoni dove si parla la lingua tedesca e non hanno più voluto abbracciare il sogno dei padri che sarebbe stato quello di godersi la vecchiaia nella frescura di pini e faggi. Venderle, queste abitazioni, è diventata impresa ardua, a meno che non ci si accordi su un prezzo tanto ribassato da risultare improponibile. Meglio tenersele così come sono, incompiute, sgretolate, deserte, in attesa di un qualcosa che inverta la rotta.

Ci sono interi rioni vuoti, vicoli che languono nel silenzio, fiancate di case rivolte verso un punto dell’abitato dove cominciano e finiscono i motivi di una specie d’eternità, il vero centro di tutto, la ragione principale per cui vale la pena arrampicarsi sulla Sila.

È l’Abbazia Florense il punto di questa eternità, eretta su un costone ai piedi del quale scorrono il fiume Neto e il fiume Arvo. La chiesa venne costruita nei primi decenni del XIII secolo, ma non è l’insediamento monastico originario. La faccia romanica si erge maestosa in una piazzetta da cui si dirama una stradina con un arco a sesto acuto, che segnava il limite – dice la tradizione – di un perimetro verso cui convergevano le traiettorie di un antico medioevo desideroso di incontrare il miraggio di un cristianesimo periferico e silenzioso, più incline alle attese della Storia che ai suoi disincanti, costellato da figure anomale come quella di Gioacchino da Fiore, che proprio da queste parti, dopo l’anno Mille, ha posto le basi per immaginare un’altra Chiesae un’altra civiltà.

L’Appennino è fatto di queste anomalie e l’Abbazia Florense ne è un esempio non tanto per le pietre che si aggregano fino a compattarsi nella facciata d’epoca romanica, ma per il significato che sta in esse, nascosto da almeno ottocento anni, a ricordare le parole di Ignazio Silone nell’Avventura di un povero cristiano (1968): «Le forme più accessibili di ribellione al destino sono sempre state, nella nostra terra, il francescanesimo e l’anarchia. Presso i più sofferenti, sotto la cenere dello scetticismo, non si è mai spento l’antico sogno di Gioacchino da Fiore». Silone alludeva al suo Abruzzo quando alludeva alle «nostre terre», ma indirettamente poneva una questione geografica che non solo abbracciava l’intero Appennino, ma suggeriva una condizione umana ancora in fase di germinazione, qualcosa che prendeva spunto dalle categorie di un Medioevo latino e rinviava a un altro Occidente ancora tutto da scrivere o da realizzare.

A rafforzare la lettura di Silone intervenivano gli esperimenti narrativi di Mario Pomilio, che alle visioni di Gioacchino da Fiore faceva coincidere una delle ipotesi con cui testimoniare l’esistenza di un quinto vangelo, l’utopia del possibile, il libro irraggiungibile che la cristianità aspetta da sempre come verifica e prova dell’esistenza di un Regno su questa terra.

Gioacchino da Fiore potrebbe aver sfiorato i cardini di questo quinto evangelio. La sua predicazione si è nutrita del vento di questo lembo di Calabria greca e potrebbe costituire una porta di accesso a questo altro Occidente.

Il Libro delle figure, che reca la sua firma, è un atlante di sogni: alberi con fusti colorati, tronchi da cui spuntano nomi e volti, innesti di rami da cui si dirama il pensiero di un altro vangelo, un’altra dimensione dello spirito chiamato a mettere riparo alle inadempienze della Storia, a correggerne gli errori, a riscrivere il patto con il Dio che non parla, il Dio che si nasconde. Poco conta che le idee di questo chierico solitario siano state guardate con sospetto dai potenti del Medioevo, denigrate dai sapienti della Sorbona, come ci racconta Pomilio nel suo Quinto evangelio (1975). Le miniature del Liber figurarum, riprodotte nelle gigantografie che tappezzano la canonica dell’Abbazia Florense, sono tappe di una strada colorata che dal regno degli uomini conduce al Regno di Dio e contemplano un’epoca infinita, dal Medioevo alla Postmodernità, una specie di rimedio contro i mali che affliggono gli uomini, un inno al futuro da intendersi non tanto nella forma di una fuga verso un altrove poco credibile – sia esso l’isola che non c’è o le chimeriche illusioni di mondo senza realtà –, ma come azzardo di un progetto umano che nasce dai rimorsi della Storia e li capovolge in utopia.