Calabria (ed Emilia) 2020, suicidio assistito (di Marco Travaglio)

di Marco Travaglio 

Fonte: Il Fatto Quotidiano

Di Maio ammette ciò che tutti vedono: il M5S è “in un momento di difficoltà” (pietoso eufemismo). E Buffagni evoca la possibile “estinzione del Movimento”, nato dalla fantasia di Grillo e Casaleggio come forza “biodegradabile”, ma nel senso opposto alla scomparsa per mancanza di idee e di elettori. Intanto gli iscritti votano su Rousseau per presentare le liste alle Regionali del 26 gennaio in Emilia Romagna e in Calabria. E già soltanto la decisione di interpellarli, a prescindere dall’esito, era un sintomo della profonda crisi dei 5Stelle. Quand’era vivo Gianroberto Casaleggio, era lui insieme all’allora capo politico Beppe Grillo ad assumersi la responsabilità di concedere o negare il simbolo alle liste dei meetup nelle regioni e nei comuni al voto: quando i meetup litigavano o non erano pronti o non trovavano candidati all’altezza, diceva no e morta lì. Ora invece il capo Di Maio è talmente debole che affida la decisione agli iscritti, anche se tutti i volti più noti del M5S – da lui a Fico, da Di Battista a Taverna, da Bugani a Patuanelli, da Fraccaro a Bonafede – concordavano sull’idea di saltare un giro nelle due regioni.

Consultare la base è sempre un’ottima cosa, ma c’è modo e modo di farlo: qui l’annuncio è arrivato a sorpresa l’altroieri e non è stato minimamente preparato. Nessuno ha spiegato agl’iscritti i motivi di quell’opzione: la carenza di candidati nuovi (a parte i consiglieri regionali a caccia di secondo mandato); la necessità di una profonda (ri)organizzazione non solo al vertice ma anche alla base, sui territori, dopo l’esaurirsi della spinta dei meetup; la priorità – almeno in Emilia Romagna – di non danneggiare inutilmente Stefano Bonaccini, unico antidoto al salvinismo montante, la cui sconfitta potrebbe portare alla morte prematura del governo Conte. Così quell’opzione è apparsa ai più una fuga dall’ennesima sconfitta regionale annunciata dopo quelle dell’ultimo biennio culminate nella débâcle in Umbria (l’ultima vittoria, ancorché mutilata dal sistema elettorale, è quella del novembre 2017 in Sicilia). Così ieri gli iscritti si sono ritrovati a votare al buio e, com’era prevedibile, ha prevalso il patriottismo di partito. Col risultato che i 5Stelle si sono sparati un’altra volta nei piedi, come da copione. Un caso di suicidio assistito. La linea Di Maio, chiaramente suggerita nel quesito suggestivo su Rousseau e ribadita incautamente dal capo politico a urne telematiche aperte, è stata platealmente sconfessata dalla base. E, anche se era quella di tutto il vertice M5S, a uscirne vieppiù indebolito sarà solo lui. Oggi e ancor più domani.

Perché ora le liste vanno presentate: e con quali candidati, visto che sul territorio i militanti senza cariche sono quattro gatti e nessun leader s’è ancora affacciato per fare scouting e campagna elettorale, mentre Salvini e in parte il Pd sono in giro da un pezzo? Ma soprattutto: se Bonaccini, dato ora in lieve vantaggio sulla Borgonzoni, sulle ali anzi sulle pinne delle Sardine, dovesse perdere per pochi voti e i 5Stelle raccoglierne pochi in più di quelli mancanti al governatore uscente, tutti darebbero la colpa a loro. Li accuserebbero di aver “fatto il gioco della destra”: accusa assurda, perché difficilmente i “grillini” duri e puri votano Pd (i più si astengono). Ma il crollo della roccaforte rossa innescherebbe un cataclisma politico tale da spazzare via il governo Conte2. E con esso l’ultima occasione per il M5S di governare da posizioni di forza (hanno pur sempre un terzo di seggi in Parlamento). In ogni caso, anziché contemplarsi l’ombelico e parlare delle proprie rogne, da oggi il Movimento deve mettersi in movimento e fare ciò che gli iscritti gli hanno chiesto: impegnarsi tutti, nessuno escluso. A partire da Grillo, che non può tirarsi indietro dopo aver spinto il M5S in direzione centrosinistra. Candidare uomini di partito non avrebbe senso: perché non ce ne sono e nessuno capirebbe una scelta così lontana dallo spirito dei tempi.

L’unica strada è quella civica e ambientalista: quella che riempie le piazze sotto le insegne delle Sardine in Emilia e del movimento dei Balconi in Calabria. Nel poco tempo che c’è, bisogna aprire le liste a quei mondi, tentando di aggregare attivisti senza bandiera, professionisti ed esponenti della società civile su pochi punti che stiano a cuore agli elettori di due regioni tanto diverse. E, su quel programma d’emergenza, proporre un patto al Pd, come quello sperimentato in Umbria, cioè nella regione meno indicata: in Emilia Romagna il M5S appoggia Bonaccini e in Calabria il Pd sostiene un candidato governatore “civico” indicato dai 5Stelle. Si dirà: ma come può un grillino emiliano-romagnolo digerire l’alleanza col Pd dopo averlo combattuto per 10 anni? Può se Bonaccini rivede la sua legge urbanistica mangia-suolo e accetta un vicepresidente-assessore all’Ambiente indicato dai 5Stelle che: privilegi il traffico su rotaia e penalizzi quello su gomma (sblocco dei fondi sui tram urbani per abbattere lo smog da autotrasporto e raddoppio dei binari ferroviari in una regione dominata da treni a binario unico); fermi le tre nuove autostrade-camere a gas, sciaguratamente sbloccate da Toninelli per compiacere il Partito del Pil Lega-FI-Pd; dirotti il traffico fuori da Bologna; riapra i reparti ospedalieri chiusi per penuria di medici; finanzi il cablaggio in fibra ottica della regione, digitalizzando e sveltendo la burocrazia; cose in linea col piano di innovazione e green economy di Conte e soprattutto dalla nuova Commissione Ue. Se poi Bonaccini rifiutasse, la sconfitta sarebbe tutta sua, senza scuse né alibi. Ma, se accettasse, i 5Stelle potrebbero intestarsene il merito. Recuperare l’identità delle origini. E persino qualche voto.