Fuga di notizie dalla DDA: garantisce Gratteri o garantisce Minniti?

Faccio il mestiere di giornalista da oltre 30 anni e mai mi era capitato di vedere gente più spregiudicata di coloro che lavorano per un sottosegretario dello stato e pubblicano impunemente non notizie (a loro piacerebbe che si potessero chiamare notizie ma chiaramente non lo sono e mai potrebbero esserlo) ma solo fughe di notizie su indagati vari spifferate da pezzi deviati dello stato che si mettono ai loro ordini. 
A seconda di quali sono le esigenze politiche e personali del sottosegretario in questione.
I dipendenti del sottosegretario di stato commettono questo tipo di reato da anni ma mai nessuno (chissà perché!) apre un fascicolo su queste fughe di notizie, l’ultima delle quali sta provando a inquinare il quadro probatorio di una importante inchiesta della DDA di Catanzaro su voto di scambio, corruzione elettorale e associazione a delinquere di stampo mafioso.
La Suprema Corte ribadisce un principio spesso disatteso dal circuito mediatico in tema di segreto istruttorio. Perché nessuno di noi (giornalisti), anche se lavora per un sottosegretario di stato, può considerarsi immune o al di sopra della legge.

aula-tribunale-650x406 Il codice di procedura penale statuisce il divieto di pubblicazione degli atti dl un procedimento sia durante la fase delle indagini preliminari, sia, seppur con livelli di tutela differenti, quando il processo sia già in fase dibattimentale ma non sia ancora stata emessa la sentenza di primo grado. Le notizie desumibili dall’accesso al RE.GE. (registro generale delle notizie di reato) sono segrete, ai fini e per gli effetti dell’art. 326 c.p., potendo essere rivelate soltanto a chi ne abbia il diritto e nel rispetto delle norme che regolano il diritto di accesso alle predette notizie.

Pertanto, integra il delitto di rivelazione di segreti d’ufficio la condotta del collaboratore di cancelleria che fornisca a terzi non autorizzati a riceverla, e senza rispettare la procedura prevista dall’art. 110 bis, la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati di una determinata persona.

È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione (Pen. Sez. V sentenza 26 giugno – 3 novembre 2015, n. 44403 – Presidente Vessichelli – Relatore Guardiano).

E’ evidente che tra i potenziali autori del delitto in concorso compaiano i giornalisti di cronaca giudiziaria. In questo caso i dipendenti del sottosegretario di stato. Il reato sussiste ancor di più poiché si versa in una fase di assoluta delicatezza, quale quella delle indagini preliminari, non potendosi consentire accesso a determinati dati a persona non autorizzata a riceverle. 

Tanto, ai fini della configurabilità del reato, avviene tout court, non essendo necessaria la prova dell’esistenza di un effettivo pregiudizio per le indagini (figuratevi quando si vuole a tutti i costi delegittimare un pm!). 

Difatti, si tratta di un reato di pericolo concreto che tutela il buon andamento della amministrazione, che si intende leso allorché la divulgazione della notizia sia anche soltanto suscettibile di arrecare pregiudizio a quest’ultima o ad un terzoE’ evidente il pericolo insito in detta massima della giurisprudenza di legittimità soprattutto per alcune troppo disinvolte divulgazioni.

Fonte: Corte di Cassazione

La violazione dell’obbligo del segreto (parola che suona dolcissima ai nostri cari amici) configura solitamente i delitti di rivelazione di segreti di ufficio (art. 326 c.p.) o di rivelazione di segreto professionale (art. 622 c.p.).

Ad esempio, risponde perciò del reato di rivelazione di segreto di ufficio, l’Ufficiale o Agente di PG che rivela a un giornalista il contenuto di una dichiarazione che ha ricevuto nel corso di indagini tuttora in corso e della quale l’imputato non ha ancora potuto acquisire conoscenza. Dello stesso reato è responsabile anche la persona informata sui fatti che, prima della chiusura delle indagini, racconta a un giornalista il contenuto delle dichiarazioni che ha reso alla polizia giudiziaria quando è stata sentita da questa nel corso delle prime indagini sul reato (art. 351 c.p.p.).

Del reato di rivelazione di segreto professionale si rende, invece, colpevole il difensore dell’indagato che rivela il contenuto dell’interrogatorio che il pubblico ministero ha segretato.

La sanzione penale è una contravvenzione scaturente dall’applicazione dell’art. 684 c.p. che punisce con l’arresto fino a trenta giorni o con una ammenda “chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa di informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione”.

E’ evidente che l’art. 684 fa esplicito riferimento ad atti o documenti di un procedimento penale.

Il procuratore Lombardo
Il procuratore Lombardo

Chiuso questo lungo preambolo, ricordo perfettamente che anche un anno fa, precisamente a Ferragosto, ci trovavamo a discutere della sfrontatezza di questa gente che metteva in piazza i verbali secretati di un pentito, Adolfo Foggetti di Cosenza, per utilizzarli a fini politici e per inquinare il quadro probatorio. L’ex procuratore della DDA Vincenzo Antonio Lombardo dichiarò solennemente davanti alla commissione antimafia che avrebbe fatto di tutto per accertare le “gravi responsabilità” che c’erano state. Ma non ha fatto nulla.

Ora la “polpetta avvelenata” (perché questa sì che è una polpetta avvelenata) è stata messa nelle mani dell’attuale procuratore della DDA Nicola Gratteri, che ancora non si è degnato di prendere posizione. Vi spieghiamo noi perché.

GratteriAnziutto perché si trova nel bel mezzo di una “guerra” tra due magistrati che fanno parte del suo ufficio, uno dei quali lavora seriamente mentre l’altro lavora quasi esclusivamente per fargli saltare le inchieste ed “eliminarlo”. Con l’aiuto di questi giornalisti legati indissolubilmente, come tutti sanno, al sottosegretario di stato, capo dei servizi segreti italiani, Marco Minniti.

E’ chiaramente lui che impedisce ai magistrati di indagare su questa vergogna giornalistica ed è sempre lui che “stoppa” sul nascere eventuali rimostranze. Perché c’è chi può e chi non può. Così funziona la “giustizia” dalle nostre parti.

Pertanto, ci sono giornalisti che pubblicano fughe di notizie quando più gli aggrada con la garanzia massima di impunità. Garantisce Minniti. E se Gratteri, per un caso qualsiasi, si dovesse lamentare, è meglio che stia zitto, altrimenti poi ci pensa Marcuccio, compagno di scuola e di merende del direttore di quella testata. Come tutti sappiamo bene.

Marco Minniti
Marco Minniti

Quindi, è perfettamente inutile che agitiamo lo spauracchio del reato di fuga di notizie perché tanto nessuno interverrà e lo stesso Gratteri si ingoierà il rospo, perché, tanto, che cosa deve dire? Potrebbe mai mettersi contro il sottosegretario di stato che comanda i servizi segreti italiani?

E così dobbiamo assistere (ma certamente non lo subiamo perché gli stiamo rispondendo per come merita) al delirio di onnipotenza del Cinghiale della classe giornalistica calabrese che spara a zero contro un magistrato reo soltanto di fare il suo dovere e che, ultimamente, ma giusto per citare una sola inchiesta, ha scoperchiato il “sistema Rende” mandando agli arresti domiciliari Sandro Principe.

Il Cinghiale dei giornalisti calabresi afferma che io sarei amico di questo magistrato (che non ho mai visto in vita mia!) perché sostengo le sue inchieste e magari pubblico anche qualche verbale che mi arriva di rimbalzo dopo che è stato visionato da Minniti. Ma se fosse veramente mio amico, come mai tutti i verbali più interessanti e succulenti delle sue inchieste sotto il profilo giornalistico, li pubblica sempre il Cinghiale? Sì, quegli scoop informatissimi che altro non sono che graziosi regali del sottosegretario di cui sopra. Così anche un bambino sarebbe capace di fare scoop!!!

La verità è che non mi appassiona per niente questa divisione dei pm della DDA di Catanzaro in “buoni e cattivi” a seconda di come si alzano la mattina il sottosegretario di stato e i suoi tirapiedi. Il Cinghiale replica solo perchè ha la coda di paglia (e ci mancherebbe pure!) e la certezza di rimanere impunito tanto c’è  il “fratellino” (sempre Minniti) che gli guarda le spalle. E così, tra la garanzia di Marcuccio e quella di Gratteri, che non può parlare e deve fare buon viso a cattivo gioco, chi può essere più forte di lui? Nessuno!

Solo altri due concetti prima di chiudere. Il giornale di Minniti, nello sparare a zero contro il pm Bruni (tanto l’hanno capito tutti che si parla di lui), lo definisce, in uno degli infratitoli del suo editoriale, “pm frustato” salvo poi correggere il refuso in “pm frustrato”. Si tratta ovviamente di un refuso quasi “freudiano” perché è chiaro come il sole che il Cinghiale del giornalismo calabrese a questo pm lo “frusterebbe” davvero e volentieri. Magari con il gatto a nove code che gli ha regalato Minniti…

Infine, se c’è qualcuno che, a suo dire, svolge un giornalismo “juke box”, il suo come lo definirebbe? Gli diamo tre possibilità: giornalismo “segreto”, giornalismo “lecchino” o giornalismo “di stato deviato”?

Gabriele Carchidi